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Capitali italiane del cibo: viaggio a Palermo con lo Street Food

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Mettere piede in Sicilia per la prima volta a vent’anni o poco più può essere considerato reato, ancor di più se l’imputato ha girato in lungo e in largo eludendo dai suoi itinerari il Belpaese. Ecco dunque una full immersion di 72 ore tra i mercati migliori di Palermo, i migliori banchetti, il miglior pane ca’ meusa e le migliori arancine, ritagliandosi anche del meritato riposo a Mondello. Un vero e proprio countdown: le ore sono poche e lo streetfood da affrontare è tanto, dal salato al dolce.

Parto armato di appunti presi qua e la sul web, informazioni fornite da amici, siciliani, foodie e non. Palermo si è recentemente posizionata nella classifica mondiale delle migliori città dove poter godere del piacere del cibo di strada. Quale miglior pretesto di organizzare un weekend interamente dedicato allo Street Food? Ebbene, si parte di venerdì e il mio volo arriva a Punta Raisi alle 12.15, ora perfetta per il pranzo. Il bello della realtà mangereccia palermitana è che non ci sono orari: si può mangiare a qualunque ora a patto che non si tratti di spuntini leggeri, quindi cancellate subito dalle vostre menti l’idea di pranzo e cena.

IMG_1136I mercati della Vucciria, Del Capo e di Ballarò sono lo scenario migliore per potersi immergere nel cuore del cibo di strada del capoluogo siciliano. Ogni banchetto offre un cibo da strada differente, dal gusto delicato ma tutt’altro che leggero. Facciamo un piccolo elenco di tutto quello che ho mangiato in circa 72 ore: arancine, pani ca meusa, stigghiole, crostini palermitani, granita ai gelsi, brioche con gelato, iris, timballo di anellini alla siciliana, parmigiana di melanzane, pane e panelle, crocchè, polpo bollito, sarde alla beccafico, pasta con le sarde, cannoli e cassate. Mi sembra che sia tutto. Se volessimo semplificare il tutto si potrebbe con un equazione: 16 (i cibi assaggiati) x 72 (le ore di permanenza a Palermo) = 3 (i kilogrammi presi).

Indirizzi non ve ne voglio dare perchè realmente sono dell’idea che il cibo di strada vada consumato a istinto, senza farsi intimorire dallo sporco o dall’unto che trasudano i venditori.

IMG_0806Le aree da perlustrare sono tre: il porticciolo, il centro storico e Mondello e tenete a mente che vale la regola “più non ti avvicineresti più sarà buono”.  Mettiamo sul podio tre cibi di strada e diamone le coordinate: Pani ca meusa, polpo bollito e cannolo siciliano. Il pane con la milza è il cugino meridionale del lampredotto fiorentino, più duro, più forte e ruvido ma di una delicatezza assoluta. L’ho mangiato condito con un po di limone, niente formaggio, solo pane, milza e strutto e mi è piaciuto tantissimo. Ottimo se consumato passeggiando tra le scenografiche vie della vecchia Palermo, al tramonto con annesso imbrattamento causato dalla sugna: dalle mani fino ai gomiti. Il polpo bollito l’ho incontrato a Mondello, in uno dei tanti carretti che fanno la spola tra la spiaggia e il centro del paese. Polpo appena immerso in acqua bollente e condito con olio e limone.

IMG_0985Dire che me ne sarei mangiati talmente tanti da sterminare l’intera popolazione di polpi siculi è dir poco, insomma consiglio vivamente di ritagliare un po’ di tempo per una gita a Mondello per gustare il cefalopode e magari fare un tuffo in quel mare che difficilmente si scorda.

Dimenticatevi i cannoli siciliani che comprate al bar o in ognidove in tutto il resto d’Italia. Il cannolo siciliano è uno “state of mind” leggero nonostante la sua pesantezza, con la ricotta fresca e impalpabile, da mangiare rigorosamente appena farcito: buonissimo. La mia epifania del cannolo è avvenuta in aereoporto, perchè volevo che il ricordo di questa gita palermitana rimanesse impressa nella mente, e soprattutto nello stomaco.

Così è stato nella speranza di poter tornare in questa magica terra dalla cucina indimenticabile, visti anche i 3 kg che ho riportato in patria oltre al bel ricordo di questo weekend trascorso interamente a mangiare.

Sono originario della riviera ligure, e giustamente sono cresciuto a mare e focaccia. Per motivi di studio sono stato "costretto" a dividermi nell'arco di quattro anni tra Milano, Pechino e Shanghai. L'Asia mi ha segnato gastronomicamente a tal punto che li, durante un viaggio alle Filippine, ho deciso che il cibo sarebbe stato uno dei fidati partner della mia vita. Mi piacciono le piante esotiche, gli unicorni, le zucchine trombetta, i tupperware e le lunchbox. Amo i profumi estivi della Liguria. Ho aggiunto al mio itinerario di vita un'esperienza romana di un anno e poco più per approdare a Brescia più che carico che mai.

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Quel piatto di pasta che unisce le due sponde dell’Atlantico, la carbonara

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Ad aprile, per la precisione il 6, si è celebrato il Carbonara Day, giornata dedicata a uno dei piatti di pasta più replicati al mondo. Ma prima di tutto facciamo un po’ di chiarezza: la vera carbonara si prepara solo con guanciale, tagliato a striscioline e reso croccante in padella, pecorino romano grattugiato, uova, meglio solo i tuorli, e pepe macinato al momento. I puristi vietano l’uso della pancetta e, soprattutto, della panna. La pasta ideale è quella lunga, meglio se gli spaghetti. E altrettanto importante è evitare l’“effetto frittata”: l’uovo va versato quando la padella è fuori dal fuoco poiché cuoce a una temperatura superiore ai 75 °C.

Ma quali sono le origini della carbonara? Secondo alcuni, il piatto è l’evoluzione del cacio e ova abruzzese, delle sostanziose polpette a base di formaggio e uova, a cui nel tempo, per motivi geografici, è stato aggiunto il guanciale e rivisitato in versione pastasciutta. Secondo altri, invece, nel Polesine abitava una donna che nella sua dimora era solita organizzare le riunioni della Carboneria e sfamare chi vi partecipava con un ricco piatto di pasta. Una cosa va precisata: la ricetta della carbonara non compare in nessun ricettario fino alla fine degli anni Quaranta. Questo fatto sembra confermare l’ipotesi secondo la quale questo piatto venne creato dal cuoco bolognese Renato Gualandi. Il 22 settembre 1944 preparò, nella Riccone appena liberata, un pranzo in occasione dell’incontro tra l’Ottava Armata inglese e la Quinta Armata americana. Inconsapevolmente creò un piatto destinato a diventare famoso in tutto il mondo. Mettendo assieme del bacon americano, della crema di latte e del tuorlo in polvere, servì una pasta bavosa arricchita da una generosa macinata di pepe nero. In seguito, fino all’aprile del 1945, Gualandi divenne cuoco delle truppe alleate a Roma e, forse per merito suo, la fama della carbonara conquistò la capitale.

Da quell’episodio storico in poi il successo della carbonara non conobbe più limiti. Nel film del 1951 Cameriera bella presenza offresi…, in occasione di un colloquio di lavoro, il proprietario di un locale chiede alla cameriera Maria: «Scusi un momento, senta un po’, ma lei sa fare gli spaghetti alla carbonara?». La risposta negativa della protagonista potrebbe confermare il fatto che la ricetta non fosse ancora così conosciuta, ma già c’era chi la sapeva apprezzare. Tuttavia, la prima ricetta scritta della carbonara sembra sia contenuta in Vittles and vice: an extraordinary guide to what’s cooking on Chicago’s Near North Side, una guida sui ristoranti del distretto Near North Side di Chicago compilata nel 1952 da Patricia Bronté. Mentre in Italia la ricetta comparve nel 1954 sulla rivista La cucina italiana, e contemplava l’uso di pancetta, aglio e gruviera.

Nel 1960, Luigi Carnacina, nel ricettario La grande cucina, sostituisce la pancetta con il guanciale e impiega la panna nella preparazione della carbonara, ingrediente che verrà adoperato fino agli anni Novanta. La ricetta negli ultimi tre decenni è stata “ripulita” dagli eccessi e, ai nostri giorni, sono ammessi solo i tre ingredienti principe: guanciale, pecorino e uova, e un pizzico di pepe.

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Come nasce la granita siciliana: storia di un dessert iconico del Bel Paese

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La granita, una delle preparazioni siciliane più conosciute e simbolo delle vacanze estive trascorse sulle spiagge di una delle isole più incantevoli del Bel Paese, è il risultato dell’incontro avvenuto, a partire dal IX secolo, tra le popolazioni di religione musulmana e quelle autoctone che abitavano la Sicilia.

Agli Arabi, grazie alla dominazione dell’isola, si deve l’introduzione di una bevanda dolce, fresca e dissetante a base di sciroppo di zucchero, estratti di frutta, fiori ed erbe, talvolta allungata con acqua e servita con ghiaccio consumata in Medio Oriente e in alcune aree dei Balcani e dell’Asia Meridionale: lo sherbet. Questa bevanda di origine orientale, da cui deriva la parola “sorbetto”, incominciò a diffondersi nell’isola e a essere consumata durante le torride estati siciliane con la neve che durante gli inverni veniva raccolta e conservata.

In Sicilia, infatti, fin dal Medioevo erano presenti i nivaroli, braccianti che nel corso dell’inverno si recavano sull’Etna e sulle cime dell’Appenino Siculo, come i monti Nebrodi, Peloritani e Iblei, per raccogliere la neve caduta che successivamente veniva conservata nelle nivere, delle grotte o delle ghiacciaie a fossa, per ricavarne ghiaccio a uso alimentare e medico. I blocchi di ghiaccio, una volta formatesi, erano tagliati in cubi, avvolti con paglia, posti in sacchi di iuta rivestiti di fogliame e, a dorso di mulo, trasportati nottetempo nei paesi. Erano soprattutto i nobili a richiedere questi blocchi di ghiaccio che conservavano nelle loro nivere private, ricavate in anfratti naturali, e che impiegavano per uso domestico, grattandolo e condendolo, per l’appunto, con sciroppi alla frutta, soprattutto a base di limone e miele. È nata così la rattata, una granita grattugiata molto simile alla grattachecca romana.

Tuttavia, per la nascita della granita come noi oggi la intendiamo bisogna attendere il Cinquecento, secolo in cui venne inventato il pozzetto, un tino in legno in cui era inserito un secchio in zinco. Il tino era riempito con una miscela di neve e sale, che serviva a mantenere freddo il secchio, e isolato con della paglia o un sacco; grazie a una manovella era possibile mantenere in movimento il contenuto del secchio, evitando così la formazione di macro cristalli di ghiaccio, ottenendo una granita mantecata e vellutata molto simile e quella che oggi gustiamo.

Poco più di un secolo fa, agli inizi del Novecento, la neve e il miele sono stati rispettivamente rimpiazzati dall’acqua e dallo zucchero, una produzione più moderna e tecnologica ha sostituito quella più tradizionale e manuale e, ovviamente, hanno iniziato a comparire gusti sempre più diversi e originali, anche al Gin Tonic.

Dalla mandorla al pistacchio, dalle more di gelso al gelsomino, dal caffè al limone, quello che conta non è il gusto ma il fatto che la granita va sempre mangiata assieme alla tipica brioche col tuppo – meglio ancora se calda – che nel tempo andò a sostituire la zuccarata, un biscotto a forma di ciambella ricoperto di semi di sesamo. E per renderla ancora più irresistibile basta aggiungere un bel ciuffo di panna montata!

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Ortaggi di stagione: il fiore più buono che si possa gustare, il carciofo

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A gennaio la natura è ancora sopita: i rami degli alberi attendono i primi raggi del sole per far sbocciare le gemme, la neve copre ancora i prati di alta montagna e la nebbia avvolge i campi in attesa della semina. Tuttavia, una pianta in questa rigida stagione è nel pieno della fioritura e i suoi boccioli riempiono i banchi dei mercati, il carciofo.

Il carciofo è una pianta perenne appartenente alla famiglia delle Asteracee originaria dell’Europa orientale e delle coste africane bagnate delle acque del Mediterraneo. Il suo nome scientifico è Cynara scolymus e deriva da una curiosa leggenda. Secondo un mito greco, Cynara era una ninfa dagli occhi verdi con sfumature viola e i capelli color della cenere, di animo buono e gentile di cuore. Zeus, innamoratosi di lei, cercò di conquistarla in ogni modo, ma la ninfa, ferma sulle sue decisioni, lo respinse più e più volte. Il dio, incapace di accettare il rifiuto, decise di tramutarla per castigo in un vegetale che le somigliasse. Verde, rigido e spinoso all’esterno, come il carattere irremovibile della creatura, ma dal cuore tenero, come la sua indole, e violetto, il colore dei suoi occhi.

L’uso del carciofo è conosciuto fin dall’età greco-romana. Lucio Giunio Moderato Columella, autore del De re rustica vissuto nel I secolo, scrive della coltivazione di questa pianta in Spagna e in Sicilia, sebbene sia probabile faccia riferimento a una varietà selvatica, definita da lui hispida, ovvero spinosa.

Il nome con cui questa pianta è conosciuta nel bacino del Mediterraneo e in Europa ha tre diverse radici: il greco cynara, il tardo latino articoculum e qarshuff in arabo. Sembra che nelle regioni mediterranee, dove il nome del carciofo deriva dalla lingua araba, gli Arabi abbiano avuto un ruolo fondamentale nella diffusione di questa pianta nelle aree che sono state sotto il loro dominio politico e commerciale.

Il carciofo, con un fusto che può raggiungere il metro e mezzo di altezza, presenta un corto rizoma da cui si sviluppano le foglie. Queste sono verdi nella parte superiore mentre in quella inferiore sono bianche e coperte da peli. Il fiore, che a seconda della specie può essere viola, lilla, blu-violaceo o bianco, è contenuto all’interno di un involucro che si chiama capolino composto da brattee – delle foglie modificate – coriacee. Ed è proprio il capolino la parte più pregiata del carciofo.

Per la sua coltivazione, il carciofo necessita di terreni profondi e che sappiano mantenere l’umidità affinché la pianta, a causa della siccità, non entri in uno stato anticipato di dormienza. Richiede, in quanto vegetale mediterraneo, un clima mite e mal sopporta gli inverni troppo freddi, mentre ha bisogno di una buona esposizione solare.

La riproduzione del carciofo può avvenire con tre diverse tecniche: semina, riproduzione dei polloni e messa a dimora degli ovuli. La semina deve essere effettuata tra febbraio e maggio in un semenzaio; le piantine che nascono vanno messe a terra entro il mese di giugno. I polloni sono i germogli che si sviluppano alla base della pianta; vengono eliminati per far sì che la pianta riceva più sostanze nutritive, ma possono essere messi a dimora in autunno per creare una nuova carciofaia. Gli ovuli, invece, sono germogli non schiusi che vengono prelevati dalla pianta in estate e piantati durante la fase di dormienza.

Il carciofo è un vero toccasana per salute e in un’alimentazione equilibrata non dovrebbe mai mancare. La cinarina contenuta nel carciofo è un polifenolo che aiuta a mantenere la funzionalità epatica, prevenendo varie patologie del fegato, stimola la secrezione della bile e interviene nei processi di detossicazione dell’organismo. Il carciofo, inoltre, è un prezioso alleato nella lotta ai radicali liberi, aiuta a ridurre il colesterolo e agisce sulla regolazione della pressione sanguigna.

Come gustare questo prezioso ortaggio al meglio? Tra le ricette più apprezzate vi sono i carciofi alla romana e alla giudia. Per i primi serve un trito composto da aglio, mentuccia e prezzemolo con cui farcire i carciofi. Una volta riempiti, vanno adagiati a testa in giù e ben vicini tra loro in un tegame dai bordi alti e lasciati stufare per un’ora circa a fuoco medio. Per la seconda preparazione, invece, i carciofi devono essere pressati dolcemente su un tagliere in modo da aprire per bene le brattee. Vanno quindi immersi per due volte in olio bollente per renderli croccanti e dorati.

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