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Sicilia golosa: le migliori pasticcerie della Trinacria

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Quando si parla di Sicilia non si può non pensare al sole, al mare, agli agrumi, agli ulivi e alle mandorle. E quando si parla di Sicilia, ovviamente, non si può di certo non iniziare golosamente a salivare immaginando la sua pasticceria tipica, una delle migliori in Italia e al mondo.

Perché il cannolo di ricotta, la cassata, la granita, la frutta martorana ed il cioccolato sono veri e propri biglietti da visita della cucina sicula. Dove trovare il meglio del meglio? Ecco qui alcune pasticcerie assolutamente da visitare.

IrreraPartendo dal nord-est, l’Antica Pasticceria Irrera di Messina è unica per la sua Cassata alla Siciliana, meno barocca di quella palermitana o catanese ma con una lavorazione speciale della ricotta, rigorosamente di pecora, che la spedisce direttamente nell’Olimpo dei dolci. Proprio in riva allo stretto, dove la pasticceria Irrera delizia i messinesi fin dal 1910, si può gustare anche al Pignolata, dolce simbolo della città, fatta da piccoli riccioli di pasta bignè fritta foderati per metà con glassa bianca al profumo di limone e per l’altra metà da cioccolato.

Caffè SiciliaContinuando il viaggio verso sud nella Sicilia “dolce”, ci si trova a Noto, in provincia di Siracusa. Qui, meta di pellegrinaggio di tanti turisti e non solo, il Caffè Sicilia, pluripremiato bar dal Gambero Rosso, ovvero il laboratorio di un grandissimo maestro del gusto: Corrado Assenza. La lavorazione della ricotta, anche in questo caso rigorosamente di pecora, dona ai cannoli un’intensità fuori dal comune, mentre la Cassata alla Siciliana, qui, ha la “C” maiuscola; ma da non perdere anche i semifreddi, i pasticcini, i tranci di torta le confetture, i torroni ed i Mielarò, cioè preparati aromatizzanti a base di miele. Tutta altissima pasticceria che, secondo i canoni di Assenza, non per forza deve essere dolce. Si passa infatti dai mille toni dolci ad altrettanti toni sapidi, in un mix di mandorla, pomodoro, zafferano, cacao, vaniglia e… acciuga.

BonajutoAncora più a sud, in terra Iblea e più precisamente a Modica, si trova l’Antica Dolceria Bonajuto, la più antica fabbrica di cioccolato della Sicilia. Qui, fin dal 1880, si produce l’ormai celeberrimo Cioccolato di Modica, un cioccolato speciale la cui lavorazione fu introdotta in Sicilia dagli spagnoli così come l’avevano appresa dagli Atzechi durante la colonizzazione del nuovo mondo. Franco Ruta e la sua famiglia preparano ancora oggi il cioccolato di Modica alla cannella e alla vaniglia (i due primi gusti, seguiti da tanti altri, come l’apprezzatissimo cioccolato al peperoncino) seguendo l’antica tradizione. Qui si possono trovare anche gli ‘mpanatigghi, ovvero tipici biscotti modicani con un ripieno di mandorle, noci, cioccolato, cannella, chiodi di garofano e… carne di manzo.

AurelioDal versante orientale a quello occidentale, per gustare la granita più buona del mondo. Siamo a Sciacca, nell’agrigentino, in un piccolo bar del porto, il Bar Roma. Qui, da oltre quarant’anni, lo Zio Aurelio produce la più buona granita al limone che si possa mangiare. Il segreto? La materia prima, ovvero i limoni verdi di Menfi, e tanta tanta passione. Lo Zio Aurelio, che negli anni si è guadagnato i gradi di “Maestro della granita”, insieme al suo braccio destro, il genero Salvatore, ancora oggi usano una Cattabriga verticale a mano per la preparazione della granita, la quale risulta, a fine lavorazione, né bagnata né asciutta, non troppo fredda ma compatta, cremosa e profumatissima. In due parole: la migliore.

Maria GrammaticoPer finire, ecco la frutta martorana, dall’impasto fatto esclusivamente di farina di mandorle e zucchero, che riproduce nei minimi particolari i frutti e gli ortaggi di ogni genere, dalle pesche alle banane, dai fichi d’india al mais, dalle fragole ai pomodori. Originaria, in particolare, del palermitano e del trapanese, la frutta martorana trova la sua massima espressione ad Erice, e per la precisione nella Pasticceria Maria Grammatico. Particolare la storia della proprietaria, orfana, che a 11 anni entrò nel convento delle monache di clausura di San Carlo ad Erice, dove, grazie ad un apprendistato, carpì i segreti dell’antica arte pasticcera conventuale, per poi aprire un negozio laboratorio che negli anni si è affermato in tutto il mondo.

Ho intrapreso la via del giornalismo nel 2004 e, grazie alle tante e diverse esperienze in uffici stampa, piccoli e grandi quotidiani locali, radio e "produttori" di contenuti multimediali, ho maturato una conoscenza a 360° del mondo dei media e della comunicazione. Le mie passioni sono l'attività fisica, la buona cucina e, soprattutto, la fotografia, con la quale mi piace mischiare la tradizione un po' vintage della pellicola con l'innovazione e la modernità del digitale. Il mio obiettivo? Trasmettere emozioni attraverso la mia comunicazione.

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Rosso, verde, bianco, giallo e blu: tutti i colori del tè in un tazza

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Camellia sinensis è il nome scientifico della pianta del . Originaria dell’India e della Cina, la pianta del tè si presenta allo stato selvatico come un albero sempreverde, mentre nelle piantagioni, per via delle potature a cui è sottoposta, è un cespuglio basso con foglie di dimensioni differenti a seconda della cultivar e grandi fiori bianchi. Il tè è coltivato in zone dal clima caldo-umido e subtropicale come, oltre ai Paesi d’origine, l’Africa Orientale, l’America Meridionale, il Giappone e l’isola di Giava.
Le foglie di miglior qualità sono quelle giovani che, per mantenere inalterate quelle sostanze che conferiscono alla bevanda il sapore e l’aspetto caratteristici, vengono raccolte a mano.

La leggenda narra che al volgere della dinastia Ming (1368-1644), nel villaggio di Tongmu, durante la stagione di raccolta del tè una milizia trascorse una notte in una fattoria adoperando sacchi di foglie di tè come giacigli. Il mattino seguente, il contadino proprietario della fattoria notò che le foglie avevano assunto un insolito colore rosso; decise comunque di vendere questo tè al mercato, il quale conobbe uno straordinario successo. Tant’è che il tè nero oggigiorno è la tipologia più bevuta.

Le foglie, per la produzione del tè nero, che in Cina è chiamato tè rosso, sono sottoposte a un processo di appassimento atto a ridurne l’umidità e dare avvio a importanti trasformazioni enzimatiche. L’ossidazione delle foglie avviene con due differenti metodi: il primo impiega un macchinario che riproduce il rotolamento delle stesse nei palmi delle mani, il secondo, diffusosi con l’avvento delle bustine di tè, prevede che le foglie siano schiacciate, strappate e poi arrotolate, risultando così granulose. Con il primo processo si ottengono tè neri leggeri e morbidi, con il secondo, invece, tè forti che richiedono una breve infusione. Il contatto con l’ossigeno presente nell’aria altera il colore delle foglie, che da verdi diventano marroni con sfumature ramate. L’ossidazione viene quindi arrestata con l’essiccazione.

Il tè verde si differenzia da quello nero per la mancata ossidazione. Le foglie appena colte vengono tostate o cotte a vapore per bloccare l’azione degli enzimi e far sì che mantengano il tipico colore verde. La tostatura, da tradizione eseguita in grandi wok, conferisce all’infuso note fruttate e una tonalità che varia dal paglierino all’ambra; mentre la cottura a vapore, impiegata soprattutto in Giappone, apporta al tè un sapore vegetale e un colore tenue.

I tè bianchi più pregiati provengono della regione cinese del Fujian. Le foglie dopo l’appassimento vengo essiccate, limitando l’ossidazione. Questa lavorazione contenuta preserva le foglie, solitamente vendute sfuse e intere – il tè bianco, infatti, non dovrebbe mai essere commercializzato in filtri.

Il processo di produzione del tè giallo è simile a quello del tè verde, ma si diversifica per un periodo di ingiallimento (detto anche “sudorazione”), che consiste nel far maturare le foglie pre-essiccate in un ambiente umido. I sentori che si sviluppano sono caratterizzati da una spiccata dolcezza con note che vanno dal floreale al cioccolato. La realizzazione di questo tè, oltre a necessitare di precise condizioni ambientali, richiede l’intervento di maestri specializzati, il che ne giustifica la rarità e l’elevato prezzo.

Il wulong, conosciuto come tè blu, presenta un metodo di produzione unico. In seguito a un doppio appassimento, prima al sole poi al chiuso, le foglie di tè sono poste in un cesto di vimini che viene fatto ruotare. Il movimento rotatorio e lo sfregamento delle foglie fanno sì che i margini di queste ultime si ossidino e che la parte centrale rimanga verdastra. Il wulong è un tè parzialmente ossidato, in cui l’ossidazione viene interrotta in base allo stile che si vuole produrre, alcuni dei quali ricordano i tè neri.

Infine, vi sono i tè fermentati, quelli che in Cina sono chiamati tè neri, di cui il più famoso è il pu’er. Le foglie vengono pressate e lasciate fermentare in un ambiente umido; la fermentazione sviluppa note aromatiche molto forti, che ricordano la terra arata e la muffa.

Ogni tè, inoltre, richiede temperature diverse di infusione: se per quelli più forti come i fermentati e i neri, l’acqua può raggiungere i 90 °C, i più delicati, ad esempio i gialli o alcuni verdi, esigono che l’acqua abbia una temperatura più bassa, attorno ai 70-80 °C.

Non resta che esplorare questo colorato mondo e assaporarne ogni sfumatura.

LA CERIMONIA DEL TÈ

La cerimonia del tè, in Cina, ha origini antichissime che si possono far coincidere con la stesura de Il canone del tè, un breve trattato in dieci sezioni sulle origini, la coltivazione, la raccolta, la lavorazione e la degustazione del tè composto dall’erudita Lu Yu tra il 758 e il 761.

La perfezione ricercata in quest’arte non va intesa come mera bellezza legata ai gesti, alla decorazione o al luogo in cui la cerimonia avviene, ma negli elementi e negli utensili, e nell’equilibrio che questi raggiungono attraverso le fasi che compongono la cerimonia stessa. Importante è che l’etichetta della cerimonia si adatti agli ospiti, ai luoghi e ai contesi in cui si tiene e non viceversa.

Ogni strumento, dai contenitori per la conservazione del tè ai bracieri, dal setaccio al misurino, dal mestolo per l’acqua alle tazze, ha una propria specifica funzione ed entra in scena in un preciso momento della cerimonia. Non esiste un luogo deputato allo svolgimento della cerimonia, come ad esempio una casa da tè, essa può essere allestita all’aperto, in montagna o in un bosco; allo stesso modo non vi è un tempo preciso in cui preparare un tè: ogni momento della giornata può essere il più adatto.
La preparazione dell’infuso deve seguire dei procedimenti ben precisi. L’acqua, per esempio, deve essere pura, provenire da sorgenti montane e non deve mai essere fatta bollire più di tre volte; con uno sheng – circa un litro – di acqua non andrebbero mai preparate più di cinque tazze e il tè, quando versato al loro interno, deve formare una schiuma uniforme.

Lu Yu fornisce le indicazioni per ricreare in una tazza di tè l’ordine del cosmo, e come recita Il canone del tè «per placare la sete si beve acqua, per dare conforto alla melanconia si beve vino, per scacciare il torpore e la sonnolenza si beve tè».

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Quel piatto di pasta che unisce le due sponde dell’Atlantico, la carbonara

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Ad aprile, per la precisione il 6, si è celebrato il Carbonara Day, giornata dedicata a uno dei piatti di pasta più replicati al mondo. Ma prima di tutto facciamo un po’ di chiarezza: la vera carbonara si prepara solo con guanciale, tagliato a striscioline e reso croccante in padella, pecorino romano grattugiato, uova, meglio solo i tuorli, e pepe macinato al momento. I puristi vietano l’uso della pancetta e, soprattutto, della panna. La pasta ideale è quella lunga, meglio se gli spaghetti. E altrettanto importante è evitare l’“effetto frittata”: l’uovo va versato quando la padella è fuori dal fuoco poiché cuoce a una temperatura superiore ai 75 °C.

Ma quali sono le origini della carbonara? Secondo alcuni, il piatto è l’evoluzione del cacio e ova abruzzese, delle sostanziose polpette a base di formaggio e uova, a cui nel tempo, per motivi geografici, è stato aggiunto il guanciale e rivisitato in versione pastasciutta. Secondo altri, invece, nel Polesine abitava una donna che nella sua dimora era solita organizzare le riunioni della Carboneria e sfamare chi vi partecipava con un ricco piatto di pasta. Una cosa va precisata: la ricetta della carbonara non compare in nessun ricettario fino alla fine degli anni Quaranta. Questo fatto sembra confermare l’ipotesi secondo la quale questo piatto venne creato dal cuoco bolognese Renato Gualandi. Il 22 settembre 1944 preparò, nella Riccone appena liberata, un pranzo in occasione dell’incontro tra l’Ottava Armata inglese e la Quinta Armata americana. Inconsapevolmente creò un piatto destinato a diventare famoso in tutto il mondo. Mettendo assieme del bacon americano, della crema di latte e del tuorlo in polvere, servì una pasta bavosa arricchita da una generosa macinata di pepe nero. In seguito, fino all’aprile del 1945, Gualandi divenne cuoco delle truppe alleate a Roma e, forse per merito suo, la fama della carbonara conquistò la capitale.

Da quell’episodio storico in poi il successo della carbonara non conobbe più limiti. Nel film del 1951 Cameriera bella presenza offresi…, in occasione di un colloquio di lavoro, il proprietario di un locale chiede alla cameriera Maria: «Scusi un momento, senta un po’, ma lei sa fare gli spaghetti alla carbonara?». La risposta negativa della protagonista potrebbe confermare il fatto che la ricetta non fosse ancora così conosciuta, ma già c’era chi la sapeva apprezzare. Tuttavia, la prima ricetta scritta della carbonara sembra sia contenuta in Vittles and vice: an extraordinary guide to what’s cooking on Chicago’s Near North Side, una guida sui ristoranti del distretto Near North Side di Chicago compilata nel 1952 da Patricia Bronté. Mentre in Italia la ricetta comparve nel 1954 sulla rivista La cucina italiana, e contemplava l’uso di pancetta, aglio e gruviera.

Nel 1960, Luigi Carnacina, nel ricettario La grande cucina, sostituisce la pancetta con il guanciale e impiega la panna nella preparazione della carbonara, ingrediente che verrà adoperato fino agli anni Novanta. La ricetta negli ultimi tre decenni è stata “ripulita” dagli eccessi e, ai nostri giorni, sono ammessi solo i tre ingredienti principe: guanciale, pecorino e uova, e un pizzico di pepe.

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Come nasce la granita siciliana: storia di un dessert iconico del Bel Paese

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La granita, una delle preparazioni siciliane più conosciute e simbolo delle vacanze estive trascorse sulle spiagge di una delle isole più incantevoli del Bel Paese, è il risultato dell’incontro avvenuto, a partire dal IX secolo, tra le popolazioni di religione musulmana e quelle autoctone che abitavano la Sicilia.

Agli Arabi, grazie alla dominazione dell’isola, si deve l’introduzione di una bevanda dolce, fresca e dissetante a base di sciroppo di zucchero, estratti di frutta, fiori ed erbe, talvolta allungata con acqua e servita con ghiaccio consumata in Medio Oriente e in alcune aree dei Balcani e dell’Asia Meridionale: lo sherbet. Questa bevanda di origine orientale, da cui deriva la parola “sorbetto”, incominciò a diffondersi nell’isola e a essere consumata durante le torride estati siciliane con la neve che durante gli inverni veniva raccolta e conservata.

In Sicilia, infatti, fin dal Medioevo erano presenti i nivaroli, braccianti che nel corso dell’inverno si recavano sull’Etna e sulle cime dell’Appenino Siculo, come i monti Nebrodi, Peloritani e Iblei, per raccogliere la neve caduta che successivamente veniva conservata nelle nivere, delle grotte o delle ghiacciaie a fossa, per ricavarne ghiaccio a uso alimentare e medico. I blocchi di ghiaccio, una volta formatesi, erano tagliati in cubi, avvolti con paglia, posti in sacchi di iuta rivestiti di fogliame e, a dorso di mulo, trasportati nottetempo nei paesi. Erano soprattutto i nobili a richiedere questi blocchi di ghiaccio che conservavano nelle loro nivere private, ricavate in anfratti naturali, e che impiegavano per uso domestico, grattandolo e condendolo, per l’appunto, con sciroppi alla frutta, soprattutto a base di limone e miele. È nata così la rattata, una granita grattugiata molto simile alla grattachecca romana.

Tuttavia, per la nascita della granita come noi oggi la intendiamo bisogna attendere il Cinquecento, secolo in cui venne inventato il pozzetto, un tino in legno in cui era inserito un secchio in zinco. Il tino era riempito con una miscela di neve e sale, che serviva a mantenere freddo il secchio, e isolato con della paglia o un sacco; grazie a una manovella era possibile mantenere in movimento il contenuto del secchio, evitando così la formazione di macro cristalli di ghiaccio, ottenendo una granita mantecata e vellutata molto simile e quella che oggi gustiamo.

Poco più di un secolo fa, agli inizi del Novecento, la neve e il miele sono stati rispettivamente rimpiazzati dall’acqua e dallo zucchero, una produzione più moderna e tecnologica ha sostituito quella più tradizionale e manuale e, ovviamente, hanno iniziato a comparire gusti sempre più diversi e originali, anche al Gin Tonic.

Dalla mandorla al pistacchio, dalle more di gelso al gelsomino, dal caffè al limone, quello che conta non è il gusto ma il fatto che la granita va sempre mangiata assieme alla tipica brioche col tuppo – meglio ancora se calda – che nel tempo andò a sostituire la zuccarata, un biscotto a forma di ciambella ricoperto di semi di sesamo. E per renderla ancora più irresistibile basta aggiungere un bel ciuffo di panna montata!

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