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Griglie roventi, ma con stile: arriva la stagione delle grandi grigliate

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Siamo in piena estate, a Ferragosto manca solo una manciata giorni e il bisogno di socializzare non è mai stato così impellente. C’è forse solo una cosa che unisce gli italiani più del calcio: una grigliata all’aperto. La grigliata è un vero e proprio momento di condivisione, un’occasione per riunirsi con amici e famigliari e, sommersi dal buon cibo, trascorrere una giornata tra chiacchiere e risate.
Eppure, per quanto posso sembrare semplice all’apparenza, la cottura alla griglia – o al bbq come la chiamano i più modaioli – è una tecnica difficile da padroneggiare, sottovalutata da molti.

Partiamo dalle basi, il cibo. La carne, così come il pesce e le verdure, va tolta dal frigorifero con un certo anticipo prima di iniziare a grigliare, poiché deve essere, per garantire un risultato ottimale, a temperatura ambiente. Nel caso decidiate di organizzare una grigliata all’ultimo istante e la carne sia ancora congelata, il consiglio è quello di scongelarla nel microonde o rimandare il barbecue. La carne non va mai messa sulla griglia quando è ancora ghiacciata: i tempi di cottura si allungano notevolmente, rischiando di bruciarla all’esterno affinché si scongeli e cuocia al cuore.

Importante è anche la marinatura delle carni. Questo passaggio è fondamentale per dare carattere alla grigliata e per rendere le carni più gustose. La marinatura si rivela indispensabile per quei tipi di carne, come pollo e vitello, che richiedono cotture veloci e per i tagli più sottili che, altrimenti, tendono a seccare e diventare stopposi. Nella marinatura, però, non vai mai messo il sale – e in generale la carne non andrebbe mai salata in precedenza –, poiché in cottura la carne rilascerebbe acqua diventando dura.

Mentre le pietanze da grigliare stanno riposando a temperatura ambiente immerse nella marinatura, si deve iniziare a preparare la griglia. Questa va accesa con largo anticipo in modo che il calore sia uniforme. Se preferite utilizzare la carbonella – ma questo vale anche per coloro che fanno le braci da sé –, è importante, prima di adagiare sulla griglia qualsiasi alimento, che le braci siano ricoperte da uno strato di cenere bianca e che non vi siano più fiamme. È anche importante creare delle zone con diverse intensità di calore per poter cuocere allo stesso tempo alimenti diversi che, per le loro caratteristiche, richiedono tempi e modi differenti di cottura; inoltre è necessaria una piccola zona priva di braci dove far riposare i prodotti già cotti mantenendoli al caldo.

Prima di iniziare a grigliare bisogna assicurarsi di avere a portata di mano tutti gli strumenti necessari: non è piacevole abbandonare la carne al suo destino mentre si corre da un angolo all’altro del terrazzo o del giardino in cerca di utensili. Pinze, taglieri, forchettoni, guanti e termometro dovranno essere i vostri alleati. Il termometro è utile per verificare la cottura della carne, in particolare dei tagli più grandi. Ad esempio, pollame e maiale sono cotti quando al centro raggiungono circa i 75 °C, mentre il manzo deve sfiorare i 61 °C se lo si vuole al sangue, i 68 °C se lo si preferisce a media cottura o i 78° C se lo si desidera ben cotto.

Ora che la griglia è pronta, arriva il momento clou: la cottura. Per i tagli più grandi e magari più grassi si consiglia una cottura indiretta, ovvero con le braci ai lati della griglia, non poste direttamente sotto l’alimento, e con il coperchio. Pollame intero e carré, ad esempio, richiedono cotture uniformi e più lunghe, e il coperchio garantisce un’equa distribuzione del calore. Al contrario, i tagli di piccole dimensioni, gli spiedini e gli arrosticini, o alimenti come pesce e verdure, richiedono cotture rapide e si consiglia di cuocerli senza coperchio. E perché non sfruttare anche le braci? Patate e cipolle, avvolte nella carta alluminio, possono essere cotte al loro interno, sfruttando il calore che rilasciano.
Attenzione al fumo che si potrebbe sprigionare quando il grasso cola sulle braci roventi. Contiene sostanze nocive, come il benzopirene, e per questa ragione, nel caso si dovesse sollevare, il cibo andrebbe spostato in un’altra zona della griglia per evitare che ne sia avvolto.

Ora non resta che sedersi a tavola e (finalmente!) mangiare la grigliata, magari accompagnandola con un buon cocktail. E perché non adoperare anche qualche distillato nella marinatura, magari del gin?
Per del manzo si può preparare una marinatura a base di London Dry gin, salsa di soia, miele, salsa Worcester, aglio tritato, pepe e peperoncino frantumato, che può essere usata anche per condire la carne cotta. Se invece si deve far marinare della carne di maiale, è possibile realizzare un intingolo con gin, olio d’oliva, coccole di ginepro, semi di coriandolo e un trito di aglio e rosmarino. Il pollo, invece, richiama dei sapori più delicati: basta preparare una leggera marinatura a base di gin, succo di limone, origano essiccato, poco olio e un pizzico di zucchero.

Senza libri non posso sopravvivere, ma nemmeno senza il buon cibo. Dopo un master in Editoria sono approdato nel mondo della comunicazione, in particolare nel settore food. Amante di tutto quello che proviene dall’Oriente e di fotografia, trascorro il tempo libero occupandomi delle mie piante e colleziono fototessere. E poi impazzisco per l’odore dei fiammiferi appena spenti.

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La storia golosa e millenaria delle caramelle: un viaggio nella dolcezza

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Caramelle non ne voglio più cantava Mina nel 1972 in uno dei suoi più grandi successi discografici. Noi invece, a differenza della Tigre di Cremona, ne vogliamo ancora, ancora e ancora! Che siano dure o gommose, alla frutta o alla cola, senza zucchero o ricoperte di zuccherini, le caramelle sono un piccolo momento di piacere per il palato che rendono ancora più gioioso il periodo di carnevale.

L’origine delle caramelle si perde nella storia e ha inizio nell’India del IV secolo a.C., periodo che conobbe la penetrazione di Alessandro Magno nel subcontinente. Nel Paese asiatico si produceva la khanda, una caramella a base di succo di zucchero di canna e acqua, che una volta bolliti e ridotti venivano fatti solidificare e poi spezzettati. Ancor prima Egizi, Greci e Romani consumavano frutta candita nel miele, una preparazione che può essere considerata un’antenata della caramella, nata dall’esigenza di conservare un prodotto altamente deperibile.

Il termine “caramella” risale all’XI secolo quando i crociati di ritorno dal Vicino Oriente portarono in Europa quelle pastiglie a base di zucchero di canna che chiamavano canna mellis, parola divenuta nel tempo calamellus. Per tutto il corso del Medioevo le caramelle erano adoperate come medicina, soprattutto per curare il mal di gola e per favorire la digestione, per via delle spezie che venivo impiegate nella loro confezione. Tuttavia, proprio per i costosi ingredienti impiegati, erano un bene che solo i nobili potevano permettersi e che erano soliti offrire ai loro commensali in occasione di sontuosi banchetti. Tra queste vi era la chamber spice, una pastiglietta realizzata con zucchero e, come evoca il nome, un tripudio di spezie, tra le quali zenzero, chiodi di garofano, anice e coccole di ginepro, e frutta secca.
Grazie all’avvento della rivoluzione industriale la produzione delle caramelle fu protagonista di uno sviluppo notevole, merito anche di una maggiore accessibilità allo zucchero e a un abbattimento dei costi di lavorazione.

Nel 1847 l’invenzione di una macchina, soprannominata toy machine, composta da una serie di stampi permise di velocizzare la produzione di caramelle e crearne contemporaneamente di diverse in forma e dimensione. E così nel Vecchio e nel Nuovo Mondo fecero la loro comparsa i famosi candy store, negozi di caramelle che vendevano dolciumi di ogni tipo, alcuni dei quali prodotti con additivi e coloranti tossici come il cromato di piombo e il cinabro.

La consistenza delle caramelle è determinata dalla temperatura che lo sciroppo di zucchero raggiunge durante la cottura e dalla concentrazione del dolcificante. Al più comune saccarosio viene aggiunto sciroppo di mais, contenente glucosio, utile per rendere l’impasto più malleabile, a cui vengono addizionati coloranti e aromi.

I marshmallow come noi li conosciamo oggi, perfetti da arrostire su un fuoco e da usare come decorazione per una cioccolata calda, furono inventati nel XIX secolo in Francia, secondo una preparazione conosciuta fin nell’Egitto precristiano a base di linfa di malva estratta dalle radici della pianta. Solo al volgere del secolo, l’esigenza di creare marshmallow più stabili portò i pasticceri a sostituire la linfa di malva con gelatina animale e amido di mais. Ed è proprio la gelatina il segreto delle caramelle gommose, in quanto le rende elastiche e scioglievoli.

Di tutt’altra consistenza sono, invece, i lecca-lecca e i konpeitō. I primi, coloratissimi e spesso di dimensioni titaniche, furono inventati nella Russia del Quattrocento, Paese in cui lo zucchero era adoperato come conservante e che diede i natali a queste caramelle infilzate su bastoncini. La loro texture è talmente dura che è impossibile riuscire a morderli, ma è sopperita dal fatto che possono durare per ore e ore.

I konpeitō sono dei minuscoli dolciumi consumati per lo più in Giappone ma di origine portoghese. Furono proprio i portoghesi a far conoscere agli abitanti del Paese del Sol levante la lavorazione dello zucchero: il risultato sono dei confetti – konpeitō deriva dal portoghese confeito – caratterizzati da piccole protuberanze che si formano durante la cottura. Lo sciroppo di zucchero viene lentamente colato in una vasca riscaldata coperta da granelle di zucchero; un processo che richiede fino a tredici giorni e che ancora oggi è svolto artigianalmente.

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Il foraging spopola: alla ricerca di erbe spontanee da usare in cucina

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Ammettiamolo: René Redzepi, lo chef del Noma di Copenhagen ed esponente del movimento New Nordic Cuisine, non ha scoperto con il foraging nulla di nuovo. A lui, piuttosto, va riconosciuto il merito di aver contribuito alla diffusione di una pratica che, per via della frenesia della vita, rischiava di andare perduta.
In fin dei conti chi di noi, soprattutto se cresciuto in campagna, non è andato almeno una volta con i propri nonni a raccogliere erbe selvatiche? Tra campi, argini di fiumi, boschi e litorali, piante, bacche e piccoli frutti, radici, funghi, licheni e alghe crescono abbondanti e per millenni hanno costituito la base dell’alimentazione umana.

Dalla sua comparsa sul pianeta, avvenuta duecentomila anni fa, fino alla nascita dell’agricoltura undicimila anni fa, l’Homo sapiens si è sempre nutrito di ciò che la natura offriva. La sua sussistenza era basata sulla raccolta di piante ed erbe spontanee, di insetti e carcasse e sulla caccia di animali di piccola taglia. I nostri antenati, organizzati in piccoli gruppi di raccoglitori che contavano un massimo di trenta individui, possedevano un qualcosa che con la domesticazione di piante e animali è venuta meno: una profonda conoscenza del territorio in cui vivevano. Al giorno d’oggi, accanto alle società industrializzate che conducono una vita convulsa in cui il cibo sembra apparire per magia sugli scaffali dei supermercati – qualche anno fa uno studio ha svelato che il dieci per cento degli americani crede che il latte al cioccolato provenga da mucche marroni –, esistono etnie che conducono una vita nomade o seminomade che dipende dai frutti della terra, come gli hadza in Tanzania.

Sebbene la nostra specie per la maggior parte della sua storia si sia nutrita con quanto era possibile trovare in natura, per la stragrande maggioranza di noi sembra astruso esplorare l’ambiente circostante per raccogliere vegetali commestibili, funghi e persino insetti.

Il foraging moderno ha la sua ragion d’essere nell’alimurgia, la disciplina che studia il consumo di vegetali selvatici edibili nei periodi di carestia, per scelta o necessità. E nell’ultima decina di anni sono sempre di più le persone che praticano questa attività, non vista più solo come una mera tendenza gastronomica. La tutela e la salvaguardia del pianeta, nell’ottica della crisi climatica che stiamo affrontando e di una maggiore sostenibilità ambientale, sono le ragioni principali dell’aumento di forager. Molti di coloro che praticano il foraging, non in modo saltuario ma costante, sono spinti dal bisogno di dipendere in maniera minore dai prodotti agricoli, soprattutto se coltivati con sistemi non biologici, e da una crescente diffidenza nei confronti della moderna catena alimentare, prediligendo quanto si trova in natura rispetto agli alimenti confezionati presenti nella grande distribuzione.

Ma preservare l’ambiente, dal punto di vista legislativo, non è così semplice come si possa pensare. Chi pratica foraging svolge un’importante azione per quanto riguarda, ad esempio, la raccolta di piante ed erbe aliene e infestanti, riducendone la popolazione e contribuendo al mantenimento del delicato equilibrio dei vari ecosistemi, ma ciò che manca sono delle leggi che lo regolamentino. Nel nostro Paese, infatti, il foraging è considerato ancora un passatempo anziché un lavoro a pieno titolo, e questo fa sì che o non sia disciplinato in alcun modo o che le singole istituzioni lo regolino a propria discrezione.

Recarsi per boschi, radure e lungo i corsi d’acqua per raccogliere quanto la natura mette a disposizione è una pratica che comporta una certa dose di rischio. Bisogna innanzitutto cercare in luoghi lontani da fonti di inquinamento, come impianti industriali e strade, ed essere consapevoli di ciò che si coglie. Come per i funghi, anche le erbe possono trarre in inganno gli inesperti: la mandragora, ad esempio, è una pianta simile alla borragine, ma dalle proprietà allucinogene; sebbene nell’antichità fosse utilizzata a scopo medico, oggigiorno è considerata velenosa. La guida di un esperto e lo studio fanno la differenza e il consiglio è quello di iniziare focalizzandosi sulla raccolta di poche erbe facilmente riconoscibili. Ed ecco che piante e bacche come l’ortica, il tarassaco, il luppolo, il sambuco, il crescione, il corniolo, il corbezzolo e la rosa canina possono diventare protagonisti di piatti rustici, dal sapore antico e inedito, e di cocktail originali.

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L’agroalimentare in fiera a Parma: al via una nuova edizione di Cibus

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Dal 7 al 10 maggio 2024 torna a Parma Cibus, la manifestazione di riferimento per il settore agroalimentare made in Italy, frutto della consolidata collaborazione tra Fiere di Parma e Federalimentare. La ventiduesima edizione, quest’anno, supererà ogni altra per numero di espositori (oltre 3.000 brand e una lista di attesa di 600 aziende) e per la presenza di buyer della grande distribuzione italiana e internazionale, provenienti da mercati come Stati Uniti, Germania, Spagna, Francia, Regno Unito e Medio Oriente.

Su 120.000 metri quadrati di area espositiva verrà presentato tutto il meglio dei principali settori dell’agroalimentare italiano: formaggi e derivati del latte, carni e salumi, gastronomia e prodotti surgelati, oltre alla sezione grocery, con pasta, dolci, conserve e condimenti. Vi sarà anche un ricco programma di convegni e iniziative dedicato all’Authentic Italian Food&Beverage.

Mai come al giorno d’oggi per continuare a crescere l’agroalimentare made in Italy, che è sempre più presente sulle tavole di tutto il mondo e consapevole del proprio ruolo guida sul piano della qualità e della sostenibilità, deve guardare all’estero e al futuro. Nel 2023 l’export, secondo i dati Istat, nonostante un leggero calo dei volumi ha registrato un valore pari a oltre 52 miliardi di euro, con un aumento del +6,6% rispetto al 2022, grazie ai continui investimenti delle aziende che puntano all’innovazione guardando con crescente attenzione alle esigenze del consumatore e del pianeta.

L’ industria alimentare nazionale continua a competere e a crescere grazie a una straordinaria flessibilità e creatività che ha consentito ai consumatori italiani di non impoverire troppo il proprio carrello della spesa e ai distributori internazionali di adattare rapidamente i propri assortimenti per non perdere troppi volumi. In quest’ottica Cibus ha promosso e realizzato un Osservatorio sul settore food, che Fiere di Parma svilupperà in collaborazione con il CERSI, Centro di Ricerca per lo Sviluppo Imprenditoriale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Un Monitor per offrire a imprenditori, manager e policy-makers un quadro costantemente aggiornato sull’andamento internazionale del settore agroalimentare, fornendo indicazioni utili ai fini della ricerca di opportunità di sviluppo commerciale nei mercati esteri attraverso una metodologia comparata e costantemente aggiornata.

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