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Alla scoperta del quinto sapore: l’umami, il gusto che arriva dal Giappone

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A scuola durante la lezione di scienze dedicata al senso del gusto ci è stato insegnato che la nostra lingua, tramite le papille gustative, è in grado di percepire quattro differenti sapori: acido, amaro, dolce e salato. Tuttavia, all’appello mancava il quinto sapore fondamentale, l’umami, di cui nessuno fino a pochi anni fa aveva mai sentito parlare.
L’umami è il sapore scoperto più di recente e, come definito dall’Umami Information Center, è il gusto del glutammato, dell’inosinato e del guanilato, ovvero il cosiddetto “saporito”.

La sua scoperta è avvenuta agli inizi del secolo scorso per merito di Kikunae Ikeda, professore di chimica dell’Università Imperiale, oggi Università di Tokyo. Nel 1907 Kikunae rimase colpito dal sapore intenso delle alghe kombu che la moglie acquistava regolarmente per la preparazione del brodo dashi; un sapore a lui familiare, che aveva avuto modo di riscoprire qualche anno prima quando in Germania, durante un periodo di studi, mangiò per la prima volta pomodori, asparagi e formaggi. Iniziò così a studiare le sostanze presenti nelle alghe, conscio del fatto che quel sapore fosse qualcosa di inedito, differente dai quattro già conosciuti. Attraverso vari esperimenti il professor Ikeda arrivò a identificare nell’acido glutammico, un amminoacido, il principale componente del caratteristico gusto del brodo dashi, e quindi dell’umami. Isolato l’acido, Kikunae decise di creare un condimento dallo spiccato sapore umami che, potenzialmente, avrebbe potuto risolvere il problema della povertà alimentare che colpiva le fasce meno abbienti della popolazione: aggiungendo bicarbonato di sodio all’acido glutammico diede vita, nel 1908, al glutammato monosodico, un sale dall’aspetto cristallino.

Delle forme di Parmigiano Reggiano.

Nel corso del XX secolo gli studi sull’umami proseguirono. Nel 1913, Shintaro Kodama, studente del professor Ikeda, identificò l’inosinato come il nucleotide responsabile del sapore umami del katsuobushi, i fiocchi di tonnetto striato essiccati; mentre nel 1957 lo scienziato Akira Kuninaka scoprì che a conferire il gusto umami ai funghi shiitake essiccati è il guanilato, un altro nucleotide.

Alghe kombu disidratate.

Di umami si parla molto negli ultimi tempi, soprattutto nell’alta ristorazione, settore in cui i grandi chef cercano di includere questo sapore fondamentale nelle loro creazioni. L’umami non è da considerare come un sapore esotico, alieno alla nostra cultura culinaria solo perché scoperto nel lontano Oriente e quindi associato a prodotti come la salsa di soia, le alghe o il nam pla phirk, una salsa di pesce diffusa in Thailandia. Sono moltissimi gli alimenti che consumiamo quotidianamente ricchi di umami: pomodori, asparagi, champignon, gamberi, capesante, tartufi, prosciutto crudo e formaggi stagionati, solo per citarne alcuni. L’umami era già conosciuto dagli antichi Romani, basti pensare al garum, il condimento ottenuto dalla fermentazione del pesce e delle sue interiora, un vero concentrato di umami.

L’acido glutammico è infatti presente in tutti gli alimenti, ma la nostra lingua è in grado di percepire solo quello libero. Processi come l’invecchiamento, la stagionatura e la fermentazione portano a un aumento della quantità di acido glutammico libero e, di conseguenza, a un sapore umami più inteso. Ed ecco che il Parmigiano Reggiano stagionato ventiquattro mesi presenta la stessa concentrazione di glutammato della salsa di soia.

Funghi shiitake essiccati.

Non demonizziamo quindi il glutammato, ma vediamolo come fonte di piacere per il nostro palato: l’umami ha la capacità di potenziare la percezione degli altri sapori.

Siamo bravi, belli e buoni. O almeno siamo convinti di esserlo! Amiamo cucinare, mangiare, bere, viaggiare, fotografare, conoscere e, in generale, ci lasciamo attrarre da tutto quel che merita un approfondimento. Viviamo lasciandoci calamitare da tutto ciò che piace e ci impegniamo a raccontarlo nel migliore dei modi. Altre nostre grandi passioni: gli animali domestici, l'orticoltura, gli alimenti genuini e sani e l'attività fisica. Come puoi interagire con noi? Scrivici a redazione@zedmag.it

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Scatta, mangia e condividi: come il mondo dei social ha cambiato la cucina

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#foodporn. #foodie. #yummy. #foodgasm. Scorrendo la home di Instagram quante volte ci siamo imbattuti in questi hashtag e altri simili sotto a foto o reel di ricette, piatti stellati o legati alla cucina di tutti i giorni?

Sul web la cucina ha iniziato a far parlare di sé grazie all’avvento, all’inizio degli anni Duemila, dei primi blog e di YouTube, ma è merito dei social se negli ultimi dieci anni almeno è diventata uno degli argomenti più discussi.

I nostri smartphone ci permettono di connetterci con il mondo e di condividere, in tempo reale, tutto quello che facciamo. Sfera privata e sfera pubblica sono interconnesse fra loro, sfociano l’una nell’altra: il desiderio di far sapere a chi ci segue dove siamo, con chi e cosa stiamo facendo e la curiosità data dallo spiare le vite altrui vanno di pari passo con il senso di appagamento che riceviamo da questa condivisione. E il cibo non sfugge a questa legge.

È così che, attraverso Instagram, possiamo conoscere i gusti dei nostri follower o sapere qual è il loro ristorante preferito. E sotto la lente della fotocamera il cibo che fotografiamo o riprendiamo deve risultare tanto bello quanto buono perché, mai come ai giorni nostri, il detto “si mangia prima con gli occhi” ha valenza universale.

L’estetismo in cucina, tuttavia, non è di certo una novità del XI secolo e del mondo digitale. Pensiamo alle nature morte raffigurate nei dipinti dei pittori olandesi e fiamminghi del XVI e XVII secolo. Natura morta con formaggi, mandorle e krakelingen di Clara Peeters o Natura morta con pasticcio di pavone di Pieter Claesz sono due ottimi esempi: pietanze decorate secondo le mode dell’epoca e disposte con cura su tovaglie intonse, piatti e bicchieri – quelli che oggi chiamiamo props – sistemati con cura per dare profondità alla scena. Non è forse questo che cerchiamo di far emergere, a distanza di secoli, nelle foto che pubblichiamo nei nostri feed o nelle stories?

Il cibo dà piacere: dalla sua preparazione all’impiattamento, fino al consumo. Ma quando lo “consumiamo” online, questo piacere raggiunge il proprio apice: la visione luculliana di un piatto ci porta a cercare nuovi contenuti correlati, come in un infinito susseguirsi di cause ed effetti, tanto che il piacere che nasce da questa continua esposizione al cibo assume, in alcuni casi, una connotazione pornografica.

Questo fattore, ad esempio, ha dato origine al fenomeno del mukbang. Nato in Corea del Sud, il mukbang altro non è che una trasmissione online durante la quale una persona ingurgita, davanti a una telecamera, grandi quantità di cibo mentre interagisce con il pubblico. C’è chi trae piacere erotico nel sentire e vedere una persona masticare, risucchiare e deglutire, e chi su alcune piattaforme è disposto a pagare per assistere a questi eating show.

Tutto ciò ha una conseguenza: il tempo passato davanti a uno schermo, che sia quello del telefono, del computer o della tv, a spulciare contenuti legati al cibo è in costante crescita a discapito di quello passato in cucina. Molte persone provano una maggiore soddisfazione nel vedere gli altri cucinare, ad esempio guardando vlog o ricette su YouTube, piuttosto che sperimentare e cimentarsi nella preparazione di nuovi piatti. Questa tendenza sembra andare nella direzione opposta rispetto a quanto accadeva almeno una decina di anni fa: chi all’epoca navigava sul web alla ricerca di spunti culinari, lo faceva soprattutto per una funzione pratica – imparare a cucinare – e non per impiegare il proprio tempo libero in un’attività ludica.

D’altro canto, l’importanza che il cibo riveste nella nostra vita online ha portato, da un lato, alla nascita di nuove figure professionali, come food blogger e influencer, mentre dall’altro si è rivelato essere un’importante vetrina per ristoranti, bar e strutture ricettive. Dai ristoranti stellati, venerati come dei templi in cui ogni alimento trova la massima espressione, alle trattorie di paese, che servono piatti dall’animo più rustico, ogni locale è parte di una vastissima rete i cui nodi sono costituiti da foto, video e recensioni. Tutti noi, infatti, prima di prenotare un tavolo diamo una veloce occhiata al profilo Instagram di un ristorante, per vedere come sono presentate le pietanze e come appare il locale, al sito web, per consultare in anticipo il menù, e alle opinioni che gli altri clienti hanno lasciato.

Al contempo, all’interno di questa rete trovano posto anche i piccoli produttori che, grazie ai mezzi digitali, possono far conoscere i processi lavorativi che stanno dietro i loro prodotti e instaurare un rapporto diretto con i potenziali acquirenti.

Non si tratta di decidere, quindi, se questo rapporto simbiotico sia moralmente giusto oppure no, ma di delineare alcuni degli scenari a cui esso dà vita, magari provando a ragionare su quelli che verranno ed esplorare alcuni dei modi in cui il mondo digitale si riflette e permea nella cultura gastronomica.

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Festa a Vico, in Campania l’enogastronomia ha il sapore della solidarietà

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Ormai mancano solamente pochi giorni: dal 10 al 12 giugno avrà inizio la XXI edizione di Festa a Vico, l’evento che animerà le strade, i palazzi e il lungomare di Vico Equense e di Seiano in Campania e che celebra valori, cultura e luoghi a sostegno di nobili cause benefiche.

Il tema dell’edizione di quest’anno sarà C’è sentimento e prende ispirazione dalle parole di una canzone del grande Pino Daniele: «Dove tutto ha senso, c’è sentimento», proprio perché il fil rouge che unisce tutti i partecipanti alla manifestazione è un sentimento di amore e curiosità verso questa terra ricca di eccellenze.

L’evento, che ha il merito di aver fatto conoscere al mondo le ricchezze culinarie, naturalistiche e storiche della Costiera sorrentina, è diventata di anno in anno una celebrazione della grande cucina italiana. Tre giorni di festa, con più di 50.000 presenze previste, oltre 300 chef italiani e stranieri e più di 100.000 prelibatezze enogastronomiche nazionali da degustare: questi sono alcuni numeri dell’edizione 2024 della kermesse voluta dallo chef Gennaro Esposito.

Lunedì 10 giugno

Dopo il benvenuto di Gennaro Esposito, la prima giornata della manifestazione sarà animata da due talk dedicati al mondo del vino e del cibo: “La cucina italiana esiste (ed è un patrimonio di valori). Parliamo della candidatura all’Unesco” e “Vino al Bivio: cambio dei consumi e dei trend”. Mentre nel pomeriggio sarà il turno di “Quel Vino a Vico”, una serie di degustazioni e masterclass guidate dai tre master of wine Gabriele Gorelli, Andrea Lonardi e Pietro Russo.

La giornata si concluderà con la tradizionale “Cena delle Stelle”, la cena di gala benefica nata in collaborazione con La Cucina Italiana, la più antica rivista di cucina nazionale. La cena, dal titolo Bites of Italy, la celebrazione della cucina italiana, è stata pensata per sostenere la candidatura della cucina italiana a patrimonio immateriale dell’Unesco. Sarà una serata con un parterre di chef internazionali che si misureranno con ingredienti italiani per proporre piatti inediti.

Martedì 11 giugno

La mattinata sarà animata da interessanti talk come “Agrifood Storia, evoluzione e sostenibilità” e “Evoluzione e nuovi trend del F&B nell’hôtellerie”, e si si parlerà anche di chef al femminile nel talk dal titolo “ELLE EST CHEF(FE), quando lo chef è lei”. Mentre nel pomeriggio si terranno masterclass dedicate al cibo e al vino.

La serata sarà invece dedicata a “La Repubblica del Cibo”, evento che trasformerà il centro di Vico Equense in un ristorante a cielo aperto con chef da tutta Italia che realizzeranno i loro piatti nelle strade, nei giardini, nei palazzi e nelle botteghe del paese.

In contemporanea, la stessa sera, presso il ristorante Torre del Saracino dello chef Gennaro Esposito si svolgerà l’evento di degustazione riservato alla stampa, dal titolo “Una Promessa è una Promessa” in cui i più promettenti chef italiani presenteranno i loro piatti, accompagnati da alcuni dei migliori vini italiani, a un pubblico esperto formato da giornalisti e opinion leader del settore.

Mercoledì 12 giugno

L’ultimo giorno della kermesse sarà dedicato al “Cammino di Seiano”, che avrà luogo presso l’incantevole Marina di Seiano, antico e affascinante borgo di pescatori. Qui si trova anche il ristorante Torre del Saracino, all’interno del quale avrà luogo l’evento “Quell’abbinamento a Vico”, dove alcuni tra i più importanti sommelier del panorama nazionale racconteranno il loro abbinamento del cuore a giornalisti e appassionati.

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Pazzi per la pasta fresca, piccolo vademecum su tortelli, cannelloni e lasagne

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C’è stato un periodo, durante il primo lockdown, in cui la farina era diventata un bene introvabile. Chi in quelle settimane non ha sfornato almeno una torta, una pagnotta o preparato della pasta fresca? Poi, tornati alla normalità, il tempo passato ai fornelli si è ridotto sempre di più e il confezionare deliziosi manicaretti è tornato a essere un qualcosa limitato alle occasioni speciali. Con le festività natalizie alle porte, qualcuno si cimenterà nella preparazione di tortelli, cannelloni e lasagne: ecco un piccolo vademecum per realizzare la pasta fresca nel migliore dei modi.

Iniziamo con una semplice distinzione, ovvero quella tra pasta fresca all’uovo e pasta fresca senza uova. La pasta fresca all’uovo, realizzata con farina di grano tenero e uova nel rapporto di un uovo ogni cento grammi di farina, è diffusa soprattutto al Nord, mentre la pasta fresca senza uova, a base di semola di grano duro e acqua, è prodotta per lo più nell’Italia del Sud e per la sua realizzazione si impiega, solitamente, una quantità di acqua pari alla metà del peso della farina.

Per quanto riguardo la farina, oltre alle due appena citate, che sono le più impiegate, si possono utilizzare anche altre tipologie: integrale, grano saraceno, riso e castagne, per menzionarne alcune.

Quando si inizia a impastare si dispone, sul piano da lavoro o sulla spianatoia, la farina a fontana aggiungendovi una presa di sale. Al centro vi si rompono le uova, che devono essere a temperatura ambiente, e si sbattono leggermente con una forchetta, o vi si versa l’acqua; poi si inizia a incorporare la farina a partire dall’interno, prestando attenzione a non far crollare gli argini della fontana. La lavorazione deve essere energica, poiché l’impasto che si vuole ottenere deve essere liscio, elastico e omogeneo. È questa la fase in cui è possibile colorare l’impasto aggiungendovi vari ingredienti come spinaci, nero di seppia, barbabietola rossa, curcuma o cacao amaro. L’impasto può anche essere realizzato con una planetaria munita di gancio: in questo caso basta versare gli ingredienti nella ciotola della planetaria e azionarla finché non si ottiene un impasto sodo e ben amalgamato, il quale va comunque lavorato brevemente con le mani sul piano da lavoro.

Dopo aver fatto riposare la pasta a temperatura ambiente avvolta in un po’ di pellicola per circa mezz’ora, giunge il momento della stesura. A seconda della quantità di impasto, prima di stendere la sfoglia è consigliabile dividerlo in più parti così da agevolarne la lavorazione. Armati di matterello o di nonna papera e con l’aiuto di un po’ di farina si stende la pasta fino a ottenere una sfoglia sottile e leggera, quasi traslucida.

Ora non resta che dare libero sfogo alla fantasia e confezionare i formati più disparati: dai maltagliati alle farfalle passando per tagliatelle, pappardelle, tortellini, ravioli e chi più ne ha più ne metta. Attenzione però: per alcune tipologie di pasta, come le orecchiette e i cavatelli, l’impasto non va steso, ma va lavorato dandogli la forma di un cilindro lungo e stretto.

Prima di porre la pasta fresca in congelatore è opportuno farla essiccare: la si dispone quindi su un vassoio o su un telaio e la si cosparge con della semola, lasciandola essiccare all’aria.

Quello della pasta fresca è un rito che si tramanda di generazione in generazione e che esprime il bisogno di prendersi cura di chi si ama portando in tavola piatti realizzati con il cuore.

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