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La storia golosa e millenaria delle caramelle: un viaggio nella dolcezza

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Caramelle non ne voglio più cantava Mina nel 1972 in uno dei suoi più grandi successi discografici. Noi invece, a differenza della Tigre di Cremona, ne vogliamo ancora, ancora e ancora! Che siano dure o gommose, alla frutta o alla cola, senza zucchero o ricoperte di zuccherini, le caramelle sono un piccolo momento di piacere per il palato che rendono ancora più gioioso il periodo di carnevale.

L’origine delle caramelle si perde nella storia e ha inizio nell’India del IV secolo a.C., periodo che conobbe la penetrazione di Alessandro Magno nel subcontinente. Nel Paese asiatico si produceva la khanda, una caramella a base di succo di zucchero di canna e acqua, che una volta bolliti e ridotti venivano fatti solidificare e poi spezzettati. Ancor prima Egizi, Greci e Romani consumavano frutta candita nel miele, una preparazione che può essere considerata un’antenata della caramella, nata dall’esigenza di conservare un prodotto altamente deperibile.

Il termine “caramella” risale all’XI secolo quando i crociati di ritorno dal Vicino Oriente portarono in Europa quelle pastiglie a base di zucchero di canna che chiamavano canna mellis, parola divenuta nel tempo calamellus. Per tutto il corso del Medioevo le caramelle erano adoperate come medicina, soprattutto per curare il mal di gola e per favorire la digestione, per via delle spezie che venivo impiegate nella loro confezione. Tuttavia, proprio per i costosi ingredienti impiegati, erano un bene che solo i nobili potevano permettersi e che erano soliti offrire ai loro commensali in occasione di sontuosi banchetti. Tra queste vi era la chamber spice, una pastiglietta realizzata con zucchero e, come evoca il nome, un tripudio di spezie, tra le quali zenzero, chiodi di garofano, anice e coccole di ginepro, e frutta secca.
Grazie all’avvento della rivoluzione industriale la produzione delle caramelle fu protagonista di uno sviluppo notevole, merito anche di una maggiore accessibilità allo zucchero e a un abbattimento dei costi di lavorazione.

Nel 1847 l’invenzione di una macchina, soprannominata toy machine, composta da una serie di stampi permise di velocizzare la produzione di caramelle e crearne contemporaneamente di diverse in forma e dimensione. E così nel Vecchio e nel Nuovo Mondo fecero la loro comparsa i famosi candy store, negozi di caramelle che vendevano dolciumi di ogni tipo, alcuni dei quali prodotti con additivi e coloranti tossici come il cromato di piombo e il cinabro.

La consistenza delle caramelle è determinata dalla temperatura che lo sciroppo di zucchero raggiunge durante la cottura e dalla concentrazione del dolcificante. Al più comune saccarosio viene aggiunto sciroppo di mais, contenente glucosio, utile per rendere l’impasto più malleabile, a cui vengono addizionati coloranti e aromi.

I marshmallow come noi li conosciamo oggi, perfetti da arrostire su un fuoco e da usare come decorazione per una cioccolata calda, furono inventati nel XIX secolo in Francia, secondo una preparazione conosciuta fin nell’Egitto precristiano a base di linfa di malva estratta dalle radici della pianta. Solo al volgere del secolo, l’esigenza di creare marshmallow più stabili portò i pasticceri a sostituire la linfa di malva con gelatina animale e amido di mais. Ed è proprio la gelatina il segreto delle caramelle gommose, in quanto le rende elastiche e scioglievoli.

Di tutt’altra consistenza sono, invece, i lecca-lecca e i konpeitō. I primi, coloratissimi e spesso di dimensioni titaniche, furono inventati nella Russia del Quattrocento, Paese in cui lo zucchero era adoperato come conservante e che diede i natali a queste caramelle infilzate su bastoncini. La loro texture è talmente dura che è impossibile riuscire a morderli, ma è sopperita dal fatto che possono durare per ore e ore.

I konpeitō sono dei minuscoli dolciumi consumati per lo più in Giappone ma di origine portoghese. Furono proprio i portoghesi a far conoscere agli abitanti del Paese del Sol levante la lavorazione dello zucchero: il risultato sono dei confetti – konpeitō deriva dal portoghese confeito – caratterizzati da piccole protuberanze che si formano durante la cottura. Lo sciroppo di zucchero viene lentamente colato in una vasca riscaldata coperta da granelle di zucchero; un processo che richiede fino a tredici giorni e che ancora oggi è svolto artigianalmente.

Senza libri non posso sopravvivere, ma nemmeno senza il buon cibo. Dopo un master in Editoria sono approdato nel mondo della comunicazione, in particolare nel settore food. Amante di tutto quello che proviene dall’Oriente e di fotografia, trascorro il tempo libero occupandomi delle mie piante e colleziono fototessere. E poi impazzisco per l’odore dei fiammiferi appena spenti.

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Ogni spezia ha un suo valore: quando l’oro è rosso, il pregiato zafferano

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Oro rosso, è con questo nome che lo zafferano, la più pregiata delle spezie, è conosciuto fin dall’antichità: un fiore raro, prezioso, la cui coltivazione e lavorazione sono rimaste pressoché invariate nel tempo.

Leggendo il Cantico dei cantici, il libro della Bibbia attribuito a re Salomone, è possibile cogliere un riferimento al Crocus sativus: «Nardo e zafferano, cannella e cinnamòmo, con ogni specie di alberi d’incenso, mirra e àloe, con tutti gli aromi migliori»; mentre nell’Illiade Omero lo impiega per adornare il talamo di Giove e Giunone. Ma anche in questo caso è il mito a spiegarne l’origine, attraverso l’amore impossibile tra il mortale Croco e la ninfa Smilace: il giovane, impossibilitato a stare con l’amata, si suicidò, mentre l’essere divino impazzì a causa del dolore della perdita. Gli dèi, mossi da compassione, ridonarono vita agli amanti sottoforma di fiori: Croco venne trasformato in zafferano, simbolo della sfrontatezza di chi ha osato innamorarsi di una divinità, fiore dal cuore rosso come il sole, a ricordo della passione che lo mosse; Smilace, invece, venne tramutata in salsapariglia, pianta dalle foglie a forma di cuore.

Pianta erbacea bulbosa perenne, lo zafferano è nativo dell’Asia Minore, se non addirittura della lontana India. Dal Medio Oriente si diffuse in tutta l’Africa settentrionale e nel VII per merito dei conquistatori Arabi raggiunse l’Europa, dapprima la Spagna, poi la Francia e l’Italia, dov’è tuttora coltivato. La parola “zafferano”, infatti, deriva dall’arabo za’ faran.

La pianta di zafferano è riconoscibile per i caratteristici fiori, i cui petali di un incantevole viola custodiscono al loro interno il prezioso oro. Sono infatti gli stimmi, gli organi simili a filamenti destinati al ricevimento del polline, a essere impiegati come spezia. I fiori di zafferano sbocciano all’inizio dell’autunno, dai primi giorni di ottobre fino, all’incirca, a metà novembre, ed è in questo periodo che ne viene effettuata la raccolta. Quelli dello zafferano sono fiori delicati, che rischiano di deteriorarsi facilmente, ed è questa la ragione per la quale la raccolta viene svolta a mano e durante il mattino, quando sono dormienti.

Colti i fiori, si procede quindi all’estrazione degli stimmi. Con grande pazienza e con un tocco gentile, i filamenti vengono delicatamente staccati dalle corolle e successivamente posti a essiccare, cosicché si possano conservare a lungo. L’elevato costo di questa spezia è da imputare sia alla produzione e ai lunghi tempi che richiede sia all’enorme quantità di fiori necessari per ottenere un chilogrammo di zafferano secco, tra i 120.000 e i 140.000. Ma ne basta circa un grammo per realizzare una trentina di piatti di risotto alla milanese.

Se in antichità lo zafferano era impiegato per tingere tessuti, per la creazione di pigmenti colorati e nella cosmesi, oggi è la cucina il luogo di elezione per il suo utilizzo, merito anche delle eccellenti proprietà che possiede. Ricco di carotenoidi, responsabili del colore rosso, lo zafferano svolge sull’organismo un’azione antinfiammatoria, antiossidante e immunostimolante. Oltre a ciò, questa pregiata spezia favorisce la digestione e aumenta il senso di sazietà, inoltre sembra possa contrastare il decadimento cognitivo e il deficit di memoria tipici di alcune malattie neurodegenerative.

Come nel caso di altre piante, anche lo zafferano possiede dei “gemelli” tossici. Il colchico d’autunno, conosciuto anche come zafferano bastardo, presenta dei fiori viola molto simili a quelli della spezia ma, a differenza di quest’ultima, è velenoso: la presenza di colchicina, alcaloide altamente tossico, può portare alla morte se ingerito e danni alla pelle anche solo in caso di contatto. Ciò che distingue il colchico dallo zafferano è il numero di stimmi: il primo ne possiede sei, il secondo tre. La prudenza, però, non è mai troppa ed è meglio non avventurarsi alla raccolta di zafferano, ma acquistare quello prodotto dai coltivatori italiani.

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La curiosa origine dei piatti: in forno a ritmo di valzer, come è nata la Sachertorte

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«Dass er mir aber keine Schand’ macht, heut’ Abend!» con questa frase, che in italiano può essere tradotta come “spero che tu non mi metta in imbarazzo questa sera!”, ha avuto inizio la storia di una delle torte più amate di sempre, la Sachertorte.

Immaginate di essere nella Vienna del 1832 e, tra un giro di valzer e l’altro, ricevete l’invito per una cena organizzata da Klemens von Metternich, cancelliere dell’Impero asburgico. Il banchetto si sta dirigendo verso la conclusione, ogni portata è stata servita, tutto era assolutamente delizioso e mai potreste immaginare che il capocuoco si sia ammalato poche ore prima dell’inizio dell’evento. Il vostro ospite, in preda all’ansia di sfigurare dinnanzi agli invitati, ha preso la coraggiosa decisione di affidare la preparazione del dolce a un giovane apprendista di appena sedici anni, Franz Sacher.

Intimorito dalla raccomandazione di von Metternich, il pasticcere confeziona una golosa torta al cioccolato farcita con confettura di albicocche, ricoperta di glassa, anch’essa a base di cioccolato fondente, e servita con un generoso ciuffo di panna rigorosamente non zuccherata. Il successo è stratosferico, tutti rimangono estasiati dalla bontà di questa torta che prende il nome dal suo inventore.

Quell’evento segnò l’ascesa della carriera di Franz Sacher. Dopo aver lasciato la cucina di von Metternich, trovò impiego come cuoco a Bratislava; successivamente lavorò prima a bordo di un battello che faceva la spola tra le città affacciate sul Danubio, poi in un rinomato casinò di Pest, per ritornare alla fine a Vienna dove aprì una gastronomia. Dei suoi due figli, fu Eduard a intraprendere la sua stessa strada e a perfezionare la ricetta della Sachertorte negli anni in cui era impiegato alla pasticceria Demel.

Eduard Sacher, mosso da un eccellente spirito imprenditoriale, inaugurò nel 1876, nel cuore della capitale austriaca, un lussuoso hotel che tuttora porta il nome di famiglia: l’Hotel Sacher. Ma fu merito di Anna Maria Fuchs, moglie di Eduard, se l’albergo, dopo la morte del consorte nel 1892, venne frequentato da artisti, intellettuali e uomini d’affari provenienti da ogni angolo d’Europa e non solo, che accompagnavano le proprie discussioni con una fetta di Sachertorte e una tazza di caffè. Chi non avrebbe voluto condividere una Sachertorte con la regina Elisabetta II, il presidente Kennedy, Grace Kelly o Indira Ghandi?

Una delle sale dell’Hotel Sacher a Vienna.

Come ogni pietanza di successo che si rispetti, anche la Sachertorte fu protagonista di una disputa legale che vide fronteggiarsi l’Hotel Sacher e la pasticceria Demel. Nel 1934, il figlio di Eduard e Anna Maria, che portava lo stesso nome del padre, a causa di problemi finanziari dovette lasciare l’attività e, come il padre anni prima, venne assunto nella celebre pasticceria viennese, dove portò con sé la ricetta di famiglia. Nell’albergo, che venne acquistato dalle famiglie Gürtler e Siller, tuttavia, la torta a base di cioccolato continuò a essere servita agli ospiti. Ne scoppiò una vera e propria guerra di interessi che si concluse solo nel 1963 con un accordo secondo il quale all’Hotel Sacher fu concesso di produrre la Sachertorte originale, mentre alla pasticceria Demel venne permesso di confezionare la Eduard Sachertorte.

La ricetta della Sachertorte originale resta oggigiorno ancora segreta. Ciò che si sa è che la glassa è realizzata con tre diverse tipologie di cioccolato fondente, mentre l’impasto, dalla consistenza morbida ma granulosa, deve custodire al suo interno due strati di confettura di albicocche. Ma poco importa della sua segretezza, ciò che conta è la bontà che la caratterizza.

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Le eccellenze della Sardegna: l’Axridda, il formaggio conservato nell’argilla

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Aspra, all’apparenza rude e inospitale, ma in realtà accogliente e dall’animo generoso: questa è la Sardegna, terra di tradizioni ancestrali e prodotti enogastronomici unici nel loro genere. Tra questi vi è l’Axridda – dove la lettera “x” si pronuncia come la “j” nel francese jeux – un pecorino conservato nell’argilla, che in sardo si dice proprio axridda.

Escalaplano, paese che sorge su un altopiano che domina i canyon scavati dai fiumi Flumendosa e Flumineddu nel Sud Sardegna – per la precisione nella subregione del Sarrabus-Gerrei –, e i comuni limitrofi sono la patria di questo formaggio che, secondo le fonti storiche, era già apprezzato da Plinio il Vecchio.

L’Axridda presenta una pasta friabile di colore giallo paglierino e una crosta dura, tendente al grigio. Il latte ovino, di pecora di razza sarda, è lavorato a crudo con solo caglio di vitello: la cagliata, una volta formatasi viene rotta, posta nelle forme e quindi salata. All’inizio della maturazione, le forme di Axridda, di un peso che varia dai due ai quattro chilogrammi, vengono ribaltate e pulite con acqua tiepida e olio di lentisco (un prezioso olio ricavato dalle bacche dell’omonimo arbusto). Trascorsi circa sette mesi, il formaggio è pronto per essere ricoperto di argilla: si crea un impasto a base della sostanza minerale, estratta da alcune cave limitrofe a Escalaplano, e di olio di lentisco, indispensabile al fine di evitare che l’argilla, una volta asciutta, si spacchi; la consistenza dell’impasto può essere più o meno fluida, ma ciò che conta è creare due strati per uno spessore di circa cinque millimetri. Dopo una maturazione minima di un mese, l’Axridda è pronto per il taglio, sebbene una stagionatura più prolungata ne esalti al meglio le caratteristiche organolettiche.

Questa tecnica, conosciuta, come detto, fin dall’Età romana, nasce da una necessità legata alla conservazione del formaggio. Durante le torridi estati sarde, il pecorino va incontro a un più rapido processo di deterioramento. Ed è qui, in questo contesto, che l’argilla entra in campo: creando una patina sulla parte esterna del pecorino ne preserva l’umidità, ne rallenta la degradazione e, allo stesso tempo, lo protegge da muffe e acari.

Su casu cun s’axridda – letteralmente “il formaggio con l’argilla” –, come è chiamato in Sardegna, è un prodotto raro, espressione di una tradizione che lentamente rischia di spegnersi e simbolo di un allevamento eroico che si fa portavoce della piccola arte casearia locale. Il latte prodotto, infatti, dai tre milioni di pecore allevate nella regione è perlopiù impiegato nella produzione di Pecorino Romano DOP e Pecorino Sardo DOP. Ma grazie al Presidio Slow Food, l’Axridda può – e merita – di sopravvivere.

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