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Il cibo potrà renderci liberi? Se ne parla da Petra, la cantina dei Moretti

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«Il cibo potrà renderci liberi, se tornerà ad essere il nostro cibo, in tutti i modi esistenti e immaginabili, secondo le diverse culture e inclinazioni. Perché cibo è libertà». Con questo pensiero, Carlo Petrini (il primo in alto nella foto), fondatore e presidente di Slow Food e Terra Madre, presenterà, domenica 24 novembre 2013, il suo nuovo libro, “Cibo e Libertà. Storie di gastronomia per la liberazione” (nell’immagine di sinistra un estratto della copertina), presso la cantina Petra di Suvereto (Li), inaugurando, con la famiglia Moretti, un suggestivo percorso fotografico che illustra volti e cibi dei luoghi più lontani al mondo.

petrini-toscani-morettiUn appuntamento imperdibile che inizierà alle 11.00 e che vedrà, appunto, anche l’inaugurazione di una mostra del grandissimo fotografo Oliviero Toscani (il secondo della foto), dedicata alla filosofia di Carlo Petrini. Un racconto fotografico che esalta la bellezza dei cibi dell’Arca del Gusto di Slow Food e quella dei volti dell’Atlante antropologico “Razza Umana”. Una mostra che svela un nuovo modo di incontrare i luoghi del vino, con la coscienza che dietro ad ogni prodotto ci sono volti e storie di tanti uomini.

L’incontro che Petra ha dedicato a Carlìn e al suo manifesto avviene a dieci anni dall’inaugurazione della cantina, che lo stesso Petrini ha tenuto a battesimo insieme all’architetto Mario Botta.

Petra, da sempre vicina alla filosofia che sta alla base del sogno di Petrini, ha già risposto all’appello dello stesso, che si prefigge di raggiungere entro il 2016 “diecimila Orti in Africa, diecimila nuovi prodotti per l’Arca del Gusto e diecimila nodi della Rete di Terra Madre”, mettendo in cantiere tre progetti per ognuno degli obiettivi fissati. «Se tutti i produttori di vino italiano assumessero lo stesso impegno – ha dichiarato Francesca Moretti (la terza nella foto) – avremmo già raggiunto l’obiettivo e Carlìn potrebbe davvero sentire l’Italia come un punto di partenza dal quale diffondere la sua gastronomia per la libertà».

A questo si aggiunge il Buono, Pulito e Giusto dell’Impianto fotovoltaico di Petra che ha reso totalmente indipendente, dal punto di vista energetico, la cantina, che sfrutta l’energia del sole e dell’acqua per soddisfare il proprio fabbisogno energetico nella produzione del vino.

Petra nelle foto tratte dal profilo Facebook dell’azienda:

Siamo bravi, belli e buoni. O almeno siamo convinti di esserlo! Amiamo cucinare, mangiare, bere, viaggiare, fotografare, conoscere e, in generale, ci lasciamo attrarre da tutto quel che merita un approfondimento. Viviamo lasciandoci calamitare da tutto ciò che piace e ci impegniamo a raccontarlo nel migliore dei modi. Altre nostre grandi passioni: gli animali domestici, l'orticoltura, gli alimenti genuini e sani e l'attività fisica. Come puoi interagire con noi? Scrivici a redazione@zedmag.it

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La distillazione si fa arte: le tecniche di produzione del gin

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Partiamo da una semplice ma basilare definizione: il gin è una bevanda alcolica ottenuta per distillazione di un fermentato a base di cereali – o più di rado patate – in cui vengono messe in infusione delle botaniche, ovvero erbe, spezie, bacche, radici e piante.

La produzione del gin è disciplinata dal regolamento (UE) 2019/787 pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea il 17 aprile 2019. Secondo la legge, un gin distillato può essere definito tale solo se la presenza di coccole di ginepro, della specie Juniperus communis, è predominante rispetto agli altri prodotti vegetali impiegati e possiede un titolo alcolometrico volumico minimo di 37,5% vol.

La preparazione del gin ha inizio con la realizzazione della base alcolica fermentata. I cereali, per lo più frumento oppure orzo, vengono miscelati con acqua e lievito, scaldati lentamente e mescolati di continuo. La miscela viene fatta fermentare per un periodo che dura circa due settimane, arco di tempo fondamentale per lo sviluppo dell’etanolo. A fermentazione completata, la parte liquida viene separata da quella solida e posta all’interno degli alambicchi.

Ha così inizio la distillazione, un processo atto a purificare il liquido. Una volta riscaldata, la base, posta all’interno della caldaia, inizia a evaporare. I vapori incanalati nel collo scendono nella serpentina che li raffredda e li riporta allo stato liquido; sotto la serpentina si trova un recipiente che raccoglie il liquido condensato. Questa fase può essere ripetuta più volte a seconda del livello di purezza che il mastro distillatore desidera ottenere.
Il liquido ottenuto con la distillazione non è omogeneo. Il primo trentacinque per cento, chiamato testa, è un prodotto che contiene metanolo e acetone, sostanze tossiche, e per questa ragione è solitamente scartato. Il seguente trenta per cento, che costituisce il cuore, è la parte migliore. Mentre la coda, il trentacinque per cento del liquido restante, sebbene contenga alcune impurità può essere nuovamente distillato.

È proprio durante la distillazione che le botaniche vengono inserite affinché possano rilasciare i loro aromi. L’aroma delle botaniche può essere estratto con diverse tecniche: sospensione, macerazione e infusione. Nella prima le erbe e le spezie vengono poste in cui cestello forato situato alla base del collo dell’alambicco; i vapori entrando a contatto con esse ne assorbono le sostanze aromatiche. Le altre due tecniche simili tra loro, poiché entrambe prevedono l’immersione delle botaniche nel liquido, differiscono per la temperatura della base alcolica: se la macerazione è eseguita a freddo, nell’infusione la base viene scaldata a una temperatura compresa tra i quarantacinque e i cinquanta gradi.
Per la produzione di gin destinati al consumo di massa si impiega la tecnica del compound che consiste nella miscelazione di alcol e concentrato di aromi di gin oppure essenze artificiali di bacche di ginepro, erbe aromatiche e spezie.

Terminata la distillazione, il liquido è posto all’interno di tini e diluito con acqua al fine di ottenere la gradazione alcolica desiderata. Prima di essere imbottigliato, il gin viene filtrato per eliminare ogni impurità presente in sospensione.

Del gin esistono tre stili di produzione che corrispondono a esperienze sensoriali e organolettiche differenti.
Il London Dry è considerato lo stile più sofisticato e si è sviluppato circa alla metà dell’Ottocento nella capitale britannica quando i consumatori cominciarono a prediligere spiriti secchi. Ciò che contraddistingue questo stile è l’uso delle botaniche, che possono essere inserite soltanto durante la distillazione e devono essere completamente naturali. Difatti, è vietata per legge l’addizione di coloranti e sostanze aromatiche artificiali.

Il Plymouth Gin è, al contrario, l’unica denominazione esistente per il gin. Dal sapore più dolce rispetto al London Dry, questo distillato è prodotto solo a Plymouth, cittadina costiera del Devon, dalla distilleria Black Friars Distillery (Coates & Co Ltd).

Infine, il terzo stile è l’Old Tom. Diffuso fino alla nascita del London Dry, l’Old Tom, nato nell’Ottocento dall’esigenza di rendere più appetibile con l’addizione di miele i gin che erano prodotti in proprio, è un gin spiccatamente dolce per via dell’aggiunta di sciroppo di glucosio.

Negli ultimi tempi si sta diffondendo una nuova tendenza: i Navy Strenght Gin. Si tratta di gin dall’elevata gradazione alcolica, non inferiore ai 57% vol.

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Alla scoperta di ingredienti particolari: il chinino, la vera anima dell’acqua tonica

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Un Gin Tonic, come il suo nome suggerisce, non può essere considerato tale se nella sua miscelazione manca un componente fondamentale, l’acqua tonica. Una delle bibite gassate più consumate, l’acqua tonica ha una storia particolare che è legata all’ingrediente che la caratterizza, ovvero il chinino. Scopriamola!

Il chinino è un alcaloide – vale a dire una sostanza organica azotata – estratto dalla corteccia della china, conosciuto e adoperato già dalle civiltà precolombiane che abitavano Perù, Ecuador e Bolivia per le sue proprietà antimalariche e antifebbrili.
La china è una pianta arborea originaria delle Ande conosciuta anche con il nome di cinchona. Secondo la leggenda, questo nome deriva Ana de Osorio contessa di Chinchón, moglie del viceré del Perù Luis Jerónimo de Cabrera conte di Chinchón, che venne curata da una febbre malarica proprio con la corteccia di questo albero. Ma la storia, in realtà, è ben diversa: la contessa di Chinchón morì circa tre anni prima della nomina del marito alla carica di viceré, avvenuta nel 1629, il quale venne accompagnato nelle Americhe dalla seconda moglie Francisca Henriquez de Ribera.

Al di là di questa curiosa leggenda, il chinino è conosciuto in Europa fin dal 1600 grazie ai gesuiti spagnoli che poterono apprenderne le proprietà dalle popolazioni indigene dell’America Latina e divenne, in epoca coloniale, un prezioso alleato per curare la malaria – malattia parassitaria che fu presente in alcune aree dell’Europa fino all’inizio del XX secolo. Nel 1817 Pierre Joseph Pelletier e Joseph Bienaimé Caventou, due farmacisti francesi, isolarono per la prima volta il chinino; mentre nel 1854 l’esploratore e filologo scozzese Willian Balfour Baikie, durante una spedizione sul fiume Niger, fu il primo ad adoperare il chinino come mezzo di prevenzione contro la malaria anziché come sola cura: prima di quella data moltissimi europei contraevano la malattia in Africa Occidentale perdendo la vita.

Grazie a queste importanti scoperte in ambito medico-scientifico l’impero britannico incominciò a esportare semi e alberi di china dell’America Meridionale per creare delle piantagioni nelle sue colonie asiatiche, prime fra tutte l’India e l’isola di Giava in Indonesia, potendo così abbatterne i costi di importazione.
Il chinino, tuttavia, è caratterizzato da una spiccata amarezza che ne rende difficile l’assunzione, ragione per cui i coloni inglesi iniziarono a miscelarlo con una soluzione a base di acqua effervescente e zucchero, creando, inconsapevolmente, quello che si potrebbe considerare il primo predecessore dell’acqua tonica.

Dal 1831 Schweppes divenne la fornitrice ufficiale di acqua gassata della Corona britannica grazie all’ingegnosa idea che il gioielliere e orologiaio tedesco Johann Jacob Schweppe ebbe nel 1783 di sviluppare a livello industriale il processo di carbonatazione dell’acqua, ovviamente con scopi medici. Quest’acqua, caratterizzata da una spiccata effervescenza, dal 1798, proprio in una campagna pubblicitaria della Schweppes, iniziò a essere chiamata soda water.
La svolta, dal punto di vista commerciale, avvenne però nel 1858 quando Erasmus Bond, proprietario della Pitt & Co., brevettò nel borgo londinese di Islington la prima acqua tonica, classificata, forse per la ridotta quantità di chinino, come digestivo e tonico anziché come rimedio contro gli stati febbrili.

L’acqua tonica non conobbe all’inizio un grande successo, ma divenne popolare soprattutto tra i viaggiatori europei che nelle zone tropicali o subtropicali cercavano una bibita che li potesse rinfrescare. La prima testimonianza del suo utilizzo come componente di un cocktail risale al 1863 quando a Hong Kong era di moda miscelarla con il ginger brandy.
Sebbene i coloni, come abbiamo visto, per mitigare il gusto amaro del chinino lo miscelavano con acqua e zucchero, spesso la soluzione risultava ancora poco appetibile, per cui la allungavano con un bene che sulle navi non mancava mai, l’alcol: poco importava che fosse vino, gin, whisky o liquori locali. Tuttavia, bisogna aspettare il 1868 per sentir parlare per la prima volta di Gin Tonic: quell’anno sulle pagine dell’Oriental Sporting Magazine venne menzionato un cocktail a base di gin e acqua tonica che gli spettatori delle gare ippiche che si tenevano a Lucknow, capitale dello stato indiano dell’Uttar Pradesh, sorseggiavano mentre assistevano alle competizioni.

Al giorno d’oggi l’acqua tonica non può essere adoperata come medicinale per la cura della malaria – bisognerebbe berne molti litri per beneficiare degli effetti del chinino –, ma è una delle bevande essenziali nell’arte della mixology e, ovviamente, indispensabile per il Gin Tonic.

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Grande e piccolo schermo: i cocktail più celebri di film e serie tv

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Con l’avvento del sonoro e la nascita dello star system, grazie anche ai grandi divi hollywoodiani come Rodolfo Valentino e Buster Keaton, il cinema fin dagli anni Venti si è fatto promotore di nuovi stili di vita e tendenze che, soprattutto a partire dagli anni del boom economico, hanno iniziato a essere imitati da un pubblico sempre più attento a quanto appariva sul grande schermo. E con il passare dei decenni anche i telefilm e le serie TV si sono fatte veicoli di nuovi trend, che non riguardano solo la moda, la musica o oggetti rappresentanti uno status symbol specifico, ma anche i gusti in fatto di cibo e cocktail. Numerosi drink, proprio grazie alla cinematografia, hanno conosciuto un successo planetario.

Il più celebre è il Vodka Martini, rigorosamente agitato e non mescolato, ordinato da James Bond, l’elegante agente segreto inglese. James Bond nacque nel 1953 dalla penna di Ian Fleming, anno in cui venne pubblicato Casino Royale, il primo romanzo della fortunata saga. Sul grande schermo, invece, il successo dell’agente 007 risale al 1962, anno in cui Sean Connery prestò per la prima volta il proprio volto al personaggio. Ed è in Agente 007 – Licenza di uccidere che l’agente beve il suo primo Vodka Martini, a base di vodka e vermouth.

La vodka è anche l’ingrediente base del Bloody Mary, cocktail onnipresente ne I Tenenbaum di Wes Anderson. Richie, terzo figlio di un’eccentrica famiglia newyorkese, è solito bere il cocktail speziato al succo di pomodoro per affogare le proprie pene d’amore. O forse per sopprimerle come fece la regina Maria I Tudor, soprannominata Maria la sanguinaria, con i protestanti inglesi, a cui una leggenda attribuisce il nome di questo cocktail.

E il distillato tipico dell’Europa orientale scorreva a fiumi in alcuni celebri telefilm andati in onda tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila. Non si può non citare il Cosmopolitan, il cocktail rosa shocking che Carrie, Samantha, Charlotte e Miranda, le quattro protagoniste di Sex and the City, bevevano nei locali più alla moda di New York mentre attendevano l’arrivo dell’uomo perfetto; o l’Appletini, il drink con il liquore alla mela amato dal dottor J.D., personaggio iconico e narratore della sitcom Scrubs – Medici ai primi ferri ambientata nell’Ospedale Sacro Cuore.

Desperate Housewives è un delle serie TV americane più popolari di sempre che ha contribuito a rendere famoso uno dei cocktail più rinfrescanti ed estivi che ci sia, il Margarita. Susan, Lynette, Bree e Gabrielle sono quattro casalinghe che vivono nel sobborgo di Wisteria Lane, in cui, quotidianamente, si consumano drammi, tradimenti, incidenti domestici e omicidi che scombussolano la vita apparentemente tranquilla del quartiere. Ed ecco che il cocktail a base di tequila, quando le protagoniste devono risolvere una situazione spinosa o riappacificarsi, entra in scena: la ricca Gabrielle ne prepara sempre qualche caraffa da bere in compagnia delle vicine di casa.

Il gin, invece, è lo spirito alla base del Singapore Sling, cocktail di un rosso intenso creato attorno al 1915 dal barista Ngiam Tong Boon del Raffles Hotel di Singapore. Il cocktail, per la cui miscelazione serve circa una decina di ingredienti, è il simbolo di uno dei film più apprezzati dei tardi anni Novanta: Paura e delirio a Las Vegas. In una pellicola allucinogena fatta di continui eccessi, Raoul Duke, interpretato da Johnny Depp, ha un debole per il cocktail ideato nello stato del Sud-est asiatico – oltre che per svariate tipologie di droghe.

Un altro personaggio letterario, poi prestatosi al grande schermo come l’agente 007, è conosciuto per essere un rinomato bevitore e un vero amante di gin: Jay Gatsby. Il personaggio principale de Il grande Gatsby– romanzo del 1925 di Francis Scott Fitzgerald –, che nel 2013 è comparso nuovamente al cinema con il volto di Leonardo DiCaprio, può essere considerato l’icona dei ruggenti anni Venti e il Gin Rickey, il cocktail simbolo di quel decennio, è il drink preferito dall’uomo.

E come non citare, in conclusione, quei telefilm in cui il consumo di alcol e cocktail è uno dei tratti distintivi dei personaggi? E così è impossibile non pensare all’irriverente e sfacciata Karen Walker di Will & Grace con la sua coppa di Martini Dry in mano, o a Cassandra Bowden, L’assistente di volo amante della vodka, o ancora alle protagoniste di Mom, la buffa sitcom incentrata sulla vita di un gruppo di ex alcoliste.

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