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Chiacchierando con Clelia d’Onofrio: da Bake Off Italia all’ultima fatica letteraria

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Il titolo potrebbe sembrare ordinario, ma non c’erano molte alternative, perché quella che doveva essere un’intervista si è tramutata, come da previsioni, in una piacevole chiacchierata. Questo perché Clelia d’Onofrio è come la si vede in tv nelle vesti di giurata di Bake Off, il programma sbarcato in Italia nel 2013 e in onda su Real Time: elegante, colta e raffinata. Lei è capace di dosare non solo gli ingredienti delle tante ricette che le sono passate tra le mani, ma di calibrare ogni singola parola, ogni singolo concetto. Ci siamo fatti raccontare la sua vita professionale, il perché dell’assenza sui social, come ha vissuto la pandemia, come è nato il suo ultimo libro e quali progetti ha in serbo per il futuro.

Il grande pubblico ti conosce nelle vesti di giurata di Bake Off Italia, ma il tuo lavoro di giornalista è iniziato tempo prima e trattando argomenti diversi dalla pasticceria. Ci puoi raccontare la tua storia professionale?
È davvero una lunga storia, potrei dire d’amore, iniziata a Milano nel maggio 1962 all’Editoriale Domus dell’editore Gianni Mazzocchi. Prima in redazione a Quattrosoldi, il mensile appena nato in difesa del consumatore poi, l’anno dopo, sono passata nella redazione di Quattroruote. È iniziata così quella che per decenni sarebbe diventata, a tempo più che pieno, la mia vita di giornalista dell’automobile, prima come redattrice, poi come editorialista e inviata, curando anche pubblicazioni come Dalla parte dell’auto e L’auto è libertà.
A bordo delle auto più diverse ho viaggiato in tutto il mondo, persino in URSS e nei Paesi satelliti (era il 1978… e c’era ancora la cortina di ferro!), in Giappone, in Islanda, nella Bassa California, nei Paesi del Nord Europa e, naturalmente, in lungo e in largo per l’Italia. I tanti anni in giro per il globo e le innumerevoli soste per il cibo hanno fatto sì che il mio palato, già educato da un papà gourmet e da una mamma brava per dono di natura oltre che da una schiera di zie che disponevano di eccellenti cuoche e cuochi, abbia accumulato un’esperienza che, sempre nell’ambito dell’Editoriale Domus, ho concretizzato collaborando alle riviste Tuttoturismo e Meridiani e poi, come direttore, del mio amatissimo Meridiani-Viaggi del Gusto.
Sempre nell’ambito dell’Editoriale Domus ho curato sedici edizioni dell’agenda cult Il Libro di Casa. E infine, con grande gioia, nel 1997 sono diventata mamma della ottava edizione del best seller italiano della cucina, Il Cucchiaio d’Argento, seguito da Il Cucchiaio d’Argento Regionale e altri volumi con lo stesso marchio come La cucina veloce e Feste di Natale. Il mio ultimo Cucchiaio porta la data del 2011.
Ai nostri giorni, da libera professionista, ho affrontato le nuove tecnologie di comunicazione collaborando al sito di mangiarebene.com con una serie di short story gastronomiche e poi l’attuale importante esperienza televisiva con Bake Off. Insomma, continuo a esplorare il mondo del cibo con la passione e il rispetto di sempre.

A proposito di gastronomia, come si impara a degustare?
Provenendo da una famiglia dove veniva posta un’attenta cura alla cucina, possiedo una sorta di palato educato che mi ha sempre permesso di riconoscere i diversi gusti, le loro sfumature, e comprendere i vari abbinamenti. Se, lavorando nella redazione di Quattroruote, non avessi avuto la possibilità di viaggiare intorno al mondo forse alcuni sapori, come una noce di cocco ripiena di petali di rosa e gamberetti, non mi sarebbe capitato di assaggiarli.

Com’è il tuo rapporto con le bevande alcoliche e con il gin in particolare?
Direi che bevo poco, ma di qualità. Mi piacciono i vini rossi stagionati per quel loro sapore vellutato, così come i vini bianchi asciutti. Un bicchiere di vino a pasto mi basta e… quando capita un Gin Tonic, perché no?!

E come vedi l’utilizzo degli alcolici nella pasticceria?
Sono favorevole, ma con giudizio. Così mi piace rialzare la debolezza di un dolce troppo dolce con determinati liquori che possono migliorarne il carattere. Per quanto riguarda il gin, mi piace spruzzarne uno o due cucchiaini sul gelato, quello al limone. Tra l’altro mi piace il suono della parola “ginepro”, poi sapendo che la buccia di limone tagliata sottile è spesso usata nei cocktail a base di gin, perché non mettere il gin sul gelato al limone?

L’approdo in tv nel 2013 è stato, arrivando dal giornalismo tradizionale, traumatico oppure no?
Ho avuto la fortuna di fare questo passaggio nel pieno dell’età matura. Con i miei capelli bianchi ho affrontato, con equilibrio, un mondo che non conoscevo. Mi sono detta che non dovevo “ringiovanire” e di continuare a fare il lavoro che avevo sempre fatto sostituendo la voce alla scrittura. E mi sono impegnata al riguardo. L’esperienza dei decenni passati in una casa editrice dove la qualità era il traguardo di ogni giorno mi ha abituato a un’autocritica piuttosto severa… però mi dicono che in tv ispiro tranquillità e sicurezza, e la cosa mi fa piacere.

Mi risulta che tu abbia optato per non essere presente sui social: è una scelta o una strategia?
La mia assenza sui social è voluta. Mi piace molto parlare del mio lavoro, ma la vita privata per quanto mi riguarda preferisco che rimanga tale. Ormai quasi tutti hanno un sito o una pagina Facebook ma, data la mia appartenenza al secolo scorso, se avessi voluto fare un sito di qualità, avrei dovuto organizzare una seppur piccola redazione. Comunque seguo le innovazioni con interesse, per esempio il podcast.

Hai sicuramente viaggiato tanto: cosa ha rappresentato per te il lockdown? Come lo hai vissuto?
Sono nata e cresciuta come una bambina ubbediente. E quindi ho seguito tutto quello che è stato e verrà richiesto. Il lockdown, lo ha dimostrato, è stato un salvavita… come rinunciarvi? In questi giorni però – sono oramai passati due anni dall’inizio pandemia! – avverto che comincia a turbarmi la copertura dei volti: vedere tutte queste persone con il viso coperto dalle mascherine, magari con in più un paio di occhiali sul naso e il cappello in testa che copre la fronte mi fa sentire in mezzo a un popolo che non conosco. Poi ragiono che anch’io ne faccio parte. Così, quando arrivo a casa mi tolgo la mascherina, mi guardo allo specchio e mi saluto: «Ciao Clelia, come stai?».

Come nasce il tuo ultimo libro Rugiada a colazione?
Nasce da ricordi che non voglio vadano perduti. Così in Rugiada a colazione parlo di me bambina e della mia felicissima infanzia, anni ai quali sono molto, ma molto legata. Anche oggi, con i miei capelli bianchi, ogni volta che voglio pensare a una cosa che mi dia gioia, penso a quel meraviglioso periodo. Ero una bambina con molta fantasia e la natura mi ispirava, tant’è vero che per me parlare con gli alberi, con i fiori, con gli oggetti, con i lampadari di cristallo (m’incantavo a guardarli) era come parlare a conoscenti.
La storia inizia all’ombra dei rami di un fico bianco, un amico scelto fin da quando ero bambina. Al fico, che dominava una grande prato della casa di campagna, raccontavo la mia vita avvolta dai profumi e dai sapori che mescolavo a un turbine di emozioni, dubbi, presentimenti, gioie e paure, ricette di casa e scoperte gastronomiche. Ogni racconto è intervallato da un susseguirsi di domande a cui solo il mio albero sa rispondere con la mia voce.
Purtroppo, due giorni dopo l’uscita in libreria con buonissimi auspici di Rugiada a colazione è iniziato il lockdown per il Covid che imperversava e le presentazioni nelle varie città si sono giustamente fermate. Così, il libro ed io non abbiamo potuto viaggiare per l’Italia come avremmo voluto. Ma siamo pronti a ripartire.

Hai qualche progetto nel cassetto che vorresti si realizzasse?
I miei progetti, per lasciarli respirare, non li chiudo in un cassetto ma li lascio sul mio tavolo di lavoro distribuiti tra fogli di carta, libri e ritagli. Durante il lockdown, con più tempo a disposizione, ho proseguito nel mio lavoro di scrittura e qui, davanti a me, ho la stesura di un nuovo libro… però sarebbe prematura qualche anticipazione. Perché “lui” è in continua evoluzione.

Giornalista dal 2000, da sempre vocato al settore food&beverage. Da grande avrei dovuto fare l'architetto, ma la passione per la comunicazione ha preso il sopravvento: ho infatti maturato esperienze nel settore del marketing operando nelle vesti di senior account in diverse agenzie di comunicazione. Oggi sono consulente aziendale nelle vesti di PR e addetto stampa. Sono appassionato di cucina, fotografia, giardinaggio, faidate e di fitness. Tra i progetti extralavorativi a breve termine: una casetta in montagna con tanto verde attorno.

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La storia golosa e millenaria delle caramelle: un viaggio nella dolcezza

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Caramelle non ne voglio più cantava Mina nel 1972 in uno dei suoi più grandi successi discografici. Noi invece, a differenza della Tigre di Cremona, ne vogliamo ancora, ancora e ancora! Che siano dure o gommose, alla frutta o alla cola, senza zucchero o ricoperte di zuccherini, le caramelle sono un piccolo momento di piacere per il palato che rendono ancora più gioioso il periodo di carnevale.

L’origine delle caramelle si perde nella storia e ha inizio nell’India del IV secolo a.C., periodo che conobbe la penetrazione di Alessandro Magno nel subcontinente. Nel Paese asiatico si produceva la khanda, una caramella a base di succo di zucchero di canna e acqua, che una volta bolliti e ridotti venivano fatti solidificare e poi spezzettati. Ancor prima Egizi, Greci e Romani consumavano frutta candita nel miele, una preparazione che può essere considerata un’antenata della caramella, nata dall’esigenza di conservare un prodotto altamente deperibile.

Il termine “caramella” risale all’XI secolo quando i crociati di ritorno dal Vicino Oriente portarono in Europa quelle pastiglie a base di zucchero di canna che chiamavano canna mellis, parola divenuta nel tempo calamellus. Per tutto il corso del Medioevo le caramelle erano adoperate come medicina, soprattutto per curare il mal di gola e per favorire la digestione, per via delle spezie che venivo impiegate nella loro confezione. Tuttavia, proprio per i costosi ingredienti impiegati, erano un bene che solo i nobili potevano permettersi e che erano soliti offrire ai loro commensali in occasione di sontuosi banchetti. Tra queste vi era la chamber spice, una pastiglietta realizzata con zucchero e, come evoca il nome, un tripudio di spezie, tra le quali zenzero, chiodi di garofano, anice e coccole di ginepro, e frutta secca.
Grazie all’avvento della rivoluzione industriale la produzione delle caramelle fu protagonista di uno sviluppo notevole, merito anche di una maggiore accessibilità allo zucchero e a un abbattimento dei costi di lavorazione.

Nel 1847 l’invenzione di una macchina, soprannominata toy machine, composta da una serie di stampi permise di velocizzare la produzione di caramelle e crearne contemporaneamente di diverse in forma e dimensione. E così nel Vecchio e nel Nuovo Mondo fecero la loro comparsa i famosi candy store, negozi di caramelle che vendevano dolciumi di ogni tipo, alcuni dei quali prodotti con additivi e coloranti tossici come il cromato di piombo e il cinabro.

La consistenza delle caramelle è determinata dalla temperatura che lo sciroppo di zucchero raggiunge durante la cottura e dalla concentrazione del dolcificante. Al più comune saccarosio viene aggiunto sciroppo di mais, contenente glucosio, utile per rendere l’impasto più malleabile, a cui vengono addizionati coloranti e aromi.

I marshmallow come noi li conosciamo oggi, perfetti da arrostire su un fuoco e da usare come decorazione per una cioccolata calda, furono inventati nel XIX secolo in Francia, secondo una preparazione conosciuta fin nell’Egitto precristiano a base di linfa di malva estratta dalle radici della pianta. Solo al volgere del secolo, l’esigenza di creare marshmallow più stabili portò i pasticceri a sostituire la linfa di malva con gelatina animale e amido di mais. Ed è proprio la gelatina il segreto delle caramelle gommose, in quanto le rende elastiche e scioglievoli.

Di tutt’altra consistenza sono, invece, i lecca-lecca e i konpeitō. I primi, coloratissimi e spesso di dimensioni titaniche, furono inventati nella Russia del Quattrocento, Paese in cui lo zucchero era adoperato come conservante e che diede i natali a queste caramelle infilzate su bastoncini. La loro texture è talmente dura che è impossibile riuscire a morderli, ma è sopperita dal fatto che possono durare per ore e ore.

I konpeitō sono dei minuscoli dolciumi consumati per lo più in Giappone ma di origine portoghese. Furono proprio i portoghesi a far conoscere agli abitanti del Paese del Sol levante la lavorazione dello zucchero: il risultato sono dei confetti – konpeitō deriva dal portoghese confeito – caratterizzati da piccole protuberanze che si formano durante la cottura. Lo sciroppo di zucchero viene lentamente colato in una vasca riscaldata coperta da granelle di zucchero; un processo che richiede fino a tredici giorni e che ancora oggi è svolto artigianalmente.

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Il foraging spopola: alla ricerca di erbe spontanee da usare in cucina

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Ammettiamolo: René Redzepi, lo chef del Noma di Copenhagen ed esponente del movimento New Nordic Cuisine, non ha scoperto con il foraging nulla di nuovo. A lui, piuttosto, va riconosciuto il merito di aver contribuito alla diffusione di una pratica che, per via della frenesia della vita, rischiava di andare perduta.
In fin dei conti chi di noi, soprattutto se cresciuto in campagna, non è andato almeno una volta con i propri nonni a raccogliere erbe selvatiche? Tra campi, argini di fiumi, boschi e litorali, piante, bacche e piccoli frutti, radici, funghi, licheni e alghe crescono abbondanti e per millenni hanno costituito la base dell’alimentazione umana.

Dalla sua comparsa sul pianeta, avvenuta duecentomila anni fa, fino alla nascita dell’agricoltura undicimila anni fa, l’Homo sapiens si è sempre nutrito di ciò che la natura offriva. La sua sussistenza era basata sulla raccolta di piante ed erbe spontanee, di insetti e carcasse e sulla caccia di animali di piccola taglia. I nostri antenati, organizzati in piccoli gruppi di raccoglitori che contavano un massimo di trenta individui, possedevano un qualcosa che con la domesticazione di piante e animali è venuta meno: una profonda conoscenza del territorio in cui vivevano. Al giorno d’oggi, accanto alle società industrializzate che conducono una vita convulsa in cui il cibo sembra apparire per magia sugli scaffali dei supermercati – qualche anno fa uno studio ha svelato che il dieci per cento degli americani crede che il latte al cioccolato provenga da mucche marroni –, esistono etnie che conducono una vita nomade o seminomade che dipende dai frutti della terra, come gli hadza in Tanzania.

Sebbene la nostra specie per la maggior parte della sua storia si sia nutrita con quanto era possibile trovare in natura, per la stragrande maggioranza di noi sembra astruso esplorare l’ambiente circostante per raccogliere vegetali commestibili, funghi e persino insetti.

Il foraging moderno ha la sua ragion d’essere nell’alimurgia, la disciplina che studia il consumo di vegetali selvatici edibili nei periodi di carestia, per scelta o necessità. E nell’ultima decina di anni sono sempre di più le persone che praticano questa attività, non vista più solo come una mera tendenza gastronomica. La tutela e la salvaguardia del pianeta, nell’ottica della crisi climatica che stiamo affrontando e di una maggiore sostenibilità ambientale, sono le ragioni principali dell’aumento di forager. Molti di coloro che praticano il foraging, non in modo saltuario ma costante, sono spinti dal bisogno di dipendere in maniera minore dai prodotti agricoli, soprattutto se coltivati con sistemi non biologici, e da una crescente diffidenza nei confronti della moderna catena alimentare, prediligendo quanto si trova in natura rispetto agli alimenti confezionati presenti nella grande distribuzione.

Ma preservare l’ambiente, dal punto di vista legislativo, non è così semplice come si possa pensare. Chi pratica foraging svolge un’importante azione per quanto riguarda, ad esempio, la raccolta di piante ed erbe aliene e infestanti, riducendone la popolazione e contribuendo al mantenimento del delicato equilibrio dei vari ecosistemi, ma ciò che manca sono delle leggi che lo regolamentino. Nel nostro Paese, infatti, il foraging è considerato ancora un passatempo anziché un lavoro a pieno titolo, e questo fa sì che o non sia disciplinato in alcun modo o che le singole istituzioni lo regolino a propria discrezione.

Recarsi per boschi, radure e lungo i corsi d’acqua per raccogliere quanto la natura mette a disposizione è una pratica che comporta una certa dose di rischio. Bisogna innanzitutto cercare in luoghi lontani da fonti di inquinamento, come impianti industriali e strade, ed essere consapevoli di ciò che si coglie. Come per i funghi, anche le erbe possono trarre in inganno gli inesperti: la mandragora, ad esempio, è una pianta simile alla borragine, ma dalle proprietà allucinogene; sebbene nell’antichità fosse utilizzata a scopo medico, oggigiorno è considerata velenosa. La guida di un esperto e lo studio fanno la differenza e il consiglio è quello di iniziare focalizzandosi sulla raccolta di poche erbe facilmente riconoscibili. Ed ecco che piante e bacche come l’ortica, il tarassaco, il luppolo, il sambuco, il crescione, il corniolo, il corbezzolo e la rosa canina possono diventare protagonisti di piatti rustici, dal sapore antico e inedito, e di cocktail originali.

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L’agroalimentare in fiera a Parma: al via una nuova edizione di Cibus

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Dal 7 al 10 maggio 2024 torna a Parma Cibus, la manifestazione di riferimento per il settore agroalimentare made in Italy, frutto della consolidata collaborazione tra Fiere di Parma e Federalimentare. La ventiduesima edizione, quest’anno, supererà ogni altra per numero di espositori (oltre 3.000 brand e una lista di attesa di 600 aziende) e per la presenza di buyer della grande distribuzione italiana e internazionale, provenienti da mercati come Stati Uniti, Germania, Spagna, Francia, Regno Unito e Medio Oriente.

Su 120.000 metri quadrati di area espositiva verrà presentato tutto il meglio dei principali settori dell’agroalimentare italiano: formaggi e derivati del latte, carni e salumi, gastronomia e prodotti surgelati, oltre alla sezione grocery, con pasta, dolci, conserve e condimenti. Vi sarà anche un ricco programma di convegni e iniziative dedicato all’Authentic Italian Food&Beverage.

Mai come al giorno d’oggi per continuare a crescere l’agroalimentare made in Italy, che è sempre più presente sulle tavole di tutto il mondo e consapevole del proprio ruolo guida sul piano della qualità e della sostenibilità, deve guardare all’estero e al futuro. Nel 2023 l’export, secondo i dati Istat, nonostante un leggero calo dei volumi ha registrato un valore pari a oltre 52 miliardi di euro, con un aumento del +6,6% rispetto al 2022, grazie ai continui investimenti delle aziende che puntano all’innovazione guardando con crescente attenzione alle esigenze del consumatore e del pianeta.

L’ industria alimentare nazionale continua a competere e a crescere grazie a una straordinaria flessibilità e creatività che ha consentito ai consumatori italiani di non impoverire troppo il proprio carrello della spesa e ai distributori internazionali di adattare rapidamente i propri assortimenti per non perdere troppi volumi. In quest’ottica Cibus ha promosso e realizzato un Osservatorio sul settore food, che Fiere di Parma svilupperà in collaborazione con il CERSI, Centro di Ricerca per lo Sviluppo Imprenditoriale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Un Monitor per offrire a imprenditori, manager e policy-makers un quadro costantemente aggiornato sull’andamento internazionale del settore agroalimentare, fornendo indicazioni utili ai fini della ricerca di opportunità di sviluppo commerciale nei mercati esteri attraverso una metodologia comparata e costantemente aggiornata.

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