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La Chef e la Boss: Alice Ristorante sbarca in tv con un nuovo format

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Una nuova storia di cucina per “La Chef e la Boss”, l’observational reality che racconta la dura vita all’interno di una cucina stellata. Ogni venerdì, a partire dal 14 novembre su Real Time potrete trovare la chef Viviana Varese e la maître e sommelier Sandra Ciciriello, detta “la boss”, alle prese con il trasferimento di Alice Ristorante di Milano in una nuova e prestigiosa location.

Ogni episodio narra le vicende professionali e umane che le due professioniste devono affrontare in un nuovo spazio tutto da allestire: dai preparativi per il trasloco alla selezione dei collaboratori, dall’organizzazione del lavoro all’inaugurazione. Saranno indaffarate nei primi 30 giorni di attività, alle prese con un tavolo di chef stellati e uno di giornalisti, e emozionate per il grande evento musicale con ospite d’eccezione Cris Cab.

In cucina si farà notare anche la brigata: il sous chef Luigi, impegnato a inventare un piatto che entri nel menù di Alice; la capo partita ai secondi Olimpia, alle prese con la pressione del suo nuovo ruolo; il capo partita ai primi Ruzzel, che sta vivendo il suo sogno americano in Italia; la capo partita agli antipasti Beatrice, che vuole confermare la sua indiscutibile vena artistica all’interno del ristorante; l’addetta alla pasticceria Ida, vittima degli scherzi dei colleghi; i ragazzi di sala, sempre sotto pressione affinché sia tutto perfetto.

Alice è molto più di un ristorante, un vero e proprio laboratorio del gusto, dove le eccellenze del cibo e dell’alta cucina italiana sono il fiore all’occhiello di un progetto tutto al femminile, caratterizzato dalla passione e la creatività dei piatti di Viviana e dal talento di Sandra nella scelta delle materie prime.

alice1«La cucina è sinonimo di vita e, proprio come la vita, richiede passione, impegno, creatività, dedizione, umiltà» afferma Viviana, caratteristiche che dimostra di avere fin da piccola, quando si avvicina ai fornelli grazie alla trattoria di pesce di famiglia. La sua storia personale e professionale l’ha portata a lasciare la Campania per crescere, imparare e formarsi in diversi locali (compreso l’Albereta, del Maestro Gualtiero Marchesi e El Celler De Can Roca, a Girona, in Spagna), fino ad aprire nel 1999 – a Orio Litta, nel lodigiano – il Girasole, la sua prima insegna.

L’incontro con Sandra dà il via a un’evoluzione velocissima che non si è più arrestata e che ha come obiettivo puntare sempre al meglio, senza smettere di studiare, sperimentare e cucinare prodotti di nicchia e di grande qualità. «Senza il pesce di Sandra – sottolinea Viviana – e i prodotti dei nostri selezionati fornitori, tutto questo non sarebbe possibile. Perché è l’unione delle forze e dell’eccellenza che permette alla qualità di andare a braccetto con la creatività».

Sandra, nata a Ostuni in Puglia e cresciuta a Milano, all’età di diciott’anni inizia a lavorare nel mercato ittico della città (mercato più importante d’Europa) e impara tutto sul pesce. È un mestiere duro, ma lei di tenacia e di amore per questa professione ne ha da vendere. Nel giro di pochi anni, apre una sua rivendita di pesce al dettaglio nel circuito dei mercati rionali fino al sodalizio con Viviana. Insieme a lei, Sandra può finalmente mettere il proprio bagaglio di conoscenze al servizio della cucina d’autore e della creatività. Anche Sommelier A.I.S., è lei ad accogliere i clienti di Alice, a scegliere e suggerire i giusti accostamenti tra i piatti e i migliori vini italiani e stranieri, oltre a occuparsi della selezione delle materie prime. «Un ristorante è fatto di due elementi fondamentali – sostiene Sandra – Non c’è sala senza cucina, non c’è cucina senza sala. E io e Viviana in questo ci siamo trovate».

Siamo bravi, belli e buoni. O almeno siamo convinti di esserlo! Amiamo cucinare, mangiare, bere, viaggiare, fotografare, conoscere e, in generale, ci lasciamo attrarre da tutto quel che merita un approfondimento. Viviamo lasciandoci calamitare da tutto ciò che piace e ci impegniamo a raccontarlo nel migliore dei modi. Altre nostre grandi passioni: gli animali domestici, l'orticoltura, gli alimenti genuini e sani e l'attività fisica. Come puoi interagire con noi? Scrivici a redazione@zedmag.it

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Ogni spezia ha un suo valore: quando l’oro è rosso, il pregiato zafferano

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Oro rosso, è con questo nome che lo zafferano, la più pregiata delle spezie, è conosciuto fin dall’antichità: un fiore raro, prezioso, la cui coltivazione e lavorazione sono rimaste pressoché invariate nel tempo.

Leggendo il Cantico dei cantici, il libro della Bibbia attribuito a re Salomone, è possibile cogliere un riferimento al Crocus sativus: «Nardo e zafferano, cannella e cinnamòmo, con ogni specie di alberi d’incenso, mirra e àloe, con tutti gli aromi migliori»; mentre nell’Illiade Omero lo impiega per adornare il talamo di Giove e Giunone. Ma anche in questo caso è il mito a spiegarne l’origine, attraverso l’amore impossibile tra il mortale Croco e la ninfa Smilace: il giovane, impossibilitato a stare con l’amata, si suicidò, mentre l’essere divino impazzì a causa del dolore della perdita. Gli dèi, mossi da compassione, ridonarono vita agli amanti sottoforma di fiori: Croco venne trasformato in zafferano, simbolo della sfrontatezza di chi ha osato innamorarsi di una divinità, fiore dal cuore rosso come il sole, a ricordo della passione che lo mosse; Smilace, invece, venne tramutata in salsapariglia, pianta dalle foglie a forma di cuore.

Pianta erbacea bulbosa perenne, lo zafferano è nativo dell’Asia Minore, se non addirittura della lontana India. Dal Medio Oriente si diffuse in tutta l’Africa settentrionale e nel VII per merito dei conquistatori Arabi raggiunse l’Europa, dapprima la Spagna, poi la Francia e l’Italia, dov’è tuttora coltivato. La parola “zafferano”, infatti, deriva dall’arabo za’ faran.

La pianta di zafferano è riconoscibile per i caratteristici fiori, i cui petali di un incantevole viola custodiscono al loro interno il prezioso oro. Sono infatti gli stimmi, gli organi simili a filamenti destinati al ricevimento del polline, a essere impiegati come spezia. I fiori di zafferano sbocciano all’inizio dell’autunno, dai primi giorni di ottobre fino, all’incirca, a metà novembre, ed è in questo periodo che ne viene effettuata la raccolta. Quelli dello zafferano sono fiori delicati, che rischiano di deteriorarsi facilmente, ed è questa la ragione per la quale la raccolta viene svolta a mano e durante il mattino, quando sono dormienti.

Colti i fiori, si procede quindi all’estrazione degli stimmi. Con grande pazienza e con un tocco gentile, i filamenti vengono delicatamente staccati dalle corolle e successivamente posti a essiccare, cosicché si possano conservare a lungo. L’elevato costo di questa spezia è da imputare sia alla produzione e ai lunghi tempi che richiede sia all’enorme quantità di fiori necessari per ottenere un chilogrammo di zafferano secco, tra i 120.000 e i 140.000. Ma ne basta circa un grammo per realizzare una trentina di piatti di risotto alla milanese.

Se in antichità lo zafferano era impiegato per tingere tessuti, per la creazione di pigmenti colorati e nella cosmesi, oggi è la cucina il luogo di elezione per il suo utilizzo, merito anche delle eccellenti proprietà che possiede. Ricco di carotenoidi, responsabili del colore rosso, lo zafferano svolge sull’organismo un’azione antinfiammatoria, antiossidante e immunostimolante. Oltre a ciò, questa pregiata spezia favorisce la digestione e aumenta il senso di sazietà, inoltre sembra possa contrastare il decadimento cognitivo e il deficit di memoria tipici di alcune malattie neurodegenerative.

Come nel caso di altre piante, anche lo zafferano possiede dei “gemelli” tossici. Il colchico d’autunno, conosciuto anche come zafferano bastardo, presenta dei fiori viola molto simili a quelli della spezia ma, a differenza di quest’ultima, è velenoso: la presenza di colchicina, alcaloide altamente tossico, può portare alla morte se ingerito e danni alla pelle anche solo in caso di contatto. Ciò che distingue il colchico dallo zafferano è il numero di stimmi: il primo ne possiede sei, il secondo tre. La prudenza, però, non è mai troppa ed è meglio non avventurarsi alla raccolta di zafferano, ma acquistare quello prodotto dai coltivatori italiani.

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La curiosa origine dei piatti: in forno a ritmo di valzer, come è nata la Sachertorte

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«Dass er mir aber keine Schand’ macht, heut’ Abend!» con questa frase, che in italiano può essere tradotta come “spero che tu non mi metta in imbarazzo questa sera!”, ha avuto inizio la storia di una delle torte più amate di sempre, la Sachertorte.

Immaginate di essere nella Vienna del 1832 e, tra un giro di valzer e l’altro, ricevete l’invito per una cena organizzata da Klemens von Metternich, cancelliere dell’Impero asburgico. Il banchetto si sta dirigendo verso la conclusione, ogni portata è stata servita, tutto era assolutamente delizioso e mai potreste immaginare che il capocuoco si sia ammalato poche ore prima dell’inizio dell’evento. Il vostro ospite, in preda all’ansia di sfigurare dinnanzi agli invitati, ha preso la coraggiosa decisione di affidare la preparazione del dolce a un giovane apprendista di appena sedici anni, Franz Sacher.

Intimorito dalla raccomandazione di von Metternich, il pasticcere confeziona una golosa torta al cioccolato farcita con confettura di albicocche, ricoperta di glassa, anch’essa a base di cioccolato fondente, e servita con un generoso ciuffo di panna rigorosamente non zuccherata. Il successo è stratosferico, tutti rimangono estasiati dalla bontà di questa torta che prende il nome dal suo inventore.

Quell’evento segnò l’ascesa della carriera di Franz Sacher. Dopo aver lasciato la cucina di von Metternich, trovò impiego come cuoco a Bratislava; successivamente lavorò prima a bordo di un battello che faceva la spola tra le città affacciate sul Danubio, poi in un rinomato casinò di Pest, per ritornare alla fine a Vienna dove aprì una gastronomia. Dei suoi due figli, fu Eduard a intraprendere la sua stessa strada e a perfezionare la ricetta della Sachertorte negli anni in cui era impiegato alla pasticceria Demel.

Eduard Sacher, mosso da un eccellente spirito imprenditoriale, inaugurò nel 1876, nel cuore della capitale austriaca, un lussuoso hotel che tuttora porta il nome di famiglia: l’Hotel Sacher. Ma fu merito di Anna Maria Fuchs, moglie di Eduard, se l’albergo, dopo la morte del consorte nel 1892, venne frequentato da artisti, intellettuali e uomini d’affari provenienti da ogni angolo d’Europa e non solo, che accompagnavano le proprie discussioni con una fetta di Sachertorte e una tazza di caffè. Chi non avrebbe voluto condividere una Sachertorte con la regina Elisabetta II, il presidente Kennedy, Grace Kelly o Indira Ghandi?

Una delle sale dell’Hotel Sacher a Vienna.

Come ogni pietanza di successo che si rispetti, anche la Sachertorte fu protagonista di una disputa legale che vide fronteggiarsi l’Hotel Sacher e la pasticceria Demel. Nel 1934, il figlio di Eduard e Anna Maria, che portava lo stesso nome del padre, a causa di problemi finanziari dovette lasciare l’attività e, come il padre anni prima, venne assunto nella celebre pasticceria viennese, dove portò con sé la ricetta di famiglia. Nell’albergo, che venne acquistato dalle famiglie Gürtler e Siller, tuttavia, la torta a base di cioccolato continuò a essere servita agli ospiti. Ne scoppiò una vera e propria guerra di interessi che si concluse solo nel 1963 con un accordo secondo il quale all’Hotel Sacher fu concesso di produrre la Sachertorte originale, mentre alla pasticceria Demel venne permesso di confezionare la Eduard Sachertorte.

La ricetta della Sachertorte originale resta oggigiorno ancora segreta. Ciò che si sa è che la glassa è realizzata con tre diverse tipologie di cioccolato fondente, mentre l’impasto, dalla consistenza morbida ma granulosa, deve custodire al suo interno due strati di confettura di albicocche. Ma poco importa della sua segretezza, ciò che conta è la bontà che la caratterizza.

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Le eccellenze della Sardegna: l’Axridda, il formaggio conservato nell’argilla

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Aspra, all’apparenza rude e inospitale, ma in realtà accogliente e dall’animo generoso: questa è la Sardegna, terra di tradizioni ancestrali e prodotti enogastronomici unici nel loro genere. Tra questi vi è l’Axridda – dove la lettera “x” si pronuncia come la “j” nel francese jeux – un pecorino conservato nell’argilla, che in sardo si dice proprio axridda.

Escalaplano, paese che sorge su un altopiano che domina i canyon scavati dai fiumi Flumendosa e Flumineddu nel Sud Sardegna – per la precisione nella subregione del Sarrabus-Gerrei –, e i comuni limitrofi sono la patria di questo formaggio che, secondo le fonti storiche, era già apprezzato da Plinio il Vecchio.

L’Axridda presenta una pasta friabile di colore giallo paglierino e una crosta dura, tendente al grigio. Il latte ovino, di pecora di razza sarda, è lavorato a crudo con solo caglio di vitello: la cagliata, una volta formatasi viene rotta, posta nelle forme e quindi salata. All’inizio della maturazione, le forme di Axridda, di un peso che varia dai due ai quattro chilogrammi, vengono ribaltate e pulite con acqua tiepida e olio di lentisco (un prezioso olio ricavato dalle bacche dell’omonimo arbusto). Trascorsi circa sette mesi, il formaggio è pronto per essere ricoperto di argilla: si crea un impasto a base della sostanza minerale, estratta da alcune cave limitrofe a Escalaplano, e di olio di lentisco, indispensabile al fine di evitare che l’argilla, una volta asciutta, si spacchi; la consistenza dell’impasto può essere più o meno fluida, ma ciò che conta è creare due strati per uno spessore di circa cinque millimetri. Dopo una maturazione minima di un mese, l’Axridda è pronto per il taglio, sebbene una stagionatura più prolungata ne esalti al meglio le caratteristiche organolettiche.

Questa tecnica, conosciuta, come detto, fin dall’Età romana, nasce da una necessità legata alla conservazione del formaggio. Durante le torridi estati sarde, il pecorino va incontro a un più rapido processo di deterioramento. Ed è qui, in questo contesto, che l’argilla entra in campo: creando una patina sulla parte esterna del pecorino ne preserva l’umidità, ne rallenta la degradazione e, allo stesso tempo, lo protegge da muffe e acari.

Su casu cun s’axridda – letteralmente “il formaggio con l’argilla” –, come è chiamato in Sardegna, è un prodotto raro, espressione di una tradizione che lentamente rischia di spegnersi e simbolo di un allevamento eroico che si fa portavoce della piccola arte casearia locale. Il latte prodotto, infatti, dai tre milioni di pecore allevate nella regione è perlopiù impiegato nella produzione di Pecorino Romano DOP e Pecorino Sardo DOP. Ma grazie al Presidio Slow Food, l’Axridda può – e merita – di sopravvivere.

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