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L’agroalimentare in fiera a Parma: al via una nuova edizione di Cibus

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Dal 7 al 10 maggio 2024 torna a Parma Cibus, la manifestazione di riferimento per il settore agroalimentare made in Italy, frutto della consolidata collaborazione tra Fiere di Parma e Federalimentare. La ventiduesima edizione, quest’anno, supererà ogni altra per numero di espositori (oltre 3.000 brand e una lista di attesa di 600 aziende) e per la presenza di buyer della grande distribuzione italiana e internazionale, provenienti da mercati come Stati Uniti, Germania, Spagna, Francia, Regno Unito e Medio Oriente.

Su 120.000 metri quadrati di area espositiva verrà presentato tutto il meglio dei principali settori dell’agroalimentare italiano: formaggi e derivati del latte, carni e salumi, gastronomia e prodotti surgelati, oltre alla sezione grocery, con pasta, dolci, conserve e condimenti. Vi sarà anche un ricco programma di convegni e iniziative dedicato all’Authentic Italian Food&Beverage.

Mai come al giorno d’oggi per continuare a crescere l’agroalimentare made in Italy, che è sempre più presente sulle tavole di tutto il mondo e consapevole del proprio ruolo guida sul piano della qualità e della sostenibilità, deve guardare all’estero e al futuro. Nel 2023 l’export, secondo i dati Istat, nonostante un leggero calo dei volumi ha registrato un valore pari a oltre 52 miliardi di euro, con un aumento del +6,6% rispetto al 2022, grazie ai continui investimenti delle aziende che puntano all’innovazione guardando con crescente attenzione alle esigenze del consumatore e del pianeta.

L’ industria alimentare nazionale continua a competere e a crescere grazie a una straordinaria flessibilità e creatività che ha consentito ai consumatori italiani di non impoverire troppo il proprio carrello della spesa e ai distributori internazionali di adattare rapidamente i propri assortimenti per non perdere troppi volumi. In quest’ottica Cibus ha promosso e realizzato un Osservatorio sul settore food, che Fiere di Parma svilupperà in collaborazione con il CERSI, Centro di Ricerca per lo Sviluppo Imprenditoriale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Un Monitor per offrire a imprenditori, manager e policy-makers un quadro costantemente aggiornato sull’andamento internazionale del settore agroalimentare, fornendo indicazioni utili ai fini della ricerca di opportunità di sviluppo commerciale nei mercati esteri attraverso una metodologia comparata e costantemente aggiornata.

Siamo bravi, belli e buoni. O almeno siamo convinti di esserlo! Amiamo cucinare, mangiare, bere, viaggiare, fotografare, conoscere e, in generale, ci lasciamo attrarre da tutto quel che merita un approfondimento. Viviamo lasciandoci calamitare da tutto ciò che piace e ci impegniamo a raccontarlo nel migliore dei modi. Altre nostre grandi passioni: gli animali domestici, l'orticoltura, gli alimenti genuini e sani e l'attività fisica. Come puoi interagire con noi? Scrivici a redazione@zedmag.it

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Le eccellenze della Sardegna: l’Axridda, il formaggio conservato nell’argilla

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Aspra, all’apparenza rude e inospitale, ma in realtà accogliente e dall’animo generoso: questa è la Sardegna, terra di tradizioni ancestrali e prodotti enogastronomici unici nel loro genere. Tra questi vi è l’Axridda – dove la lettera “x” si pronuncia come la “j” nel francese jeux – un pecorino conservato nell’argilla, che in sardo si dice proprio axridda.

Escalaplano, paese che sorge su un altopiano che domina i canyon scavati dai fiumi Flumendosa e Flumineddu nel Sud Sardegna – per la precisione nella subregione del Sarrabus-Gerrei –, e i comuni limitrofi sono la patria di questo formaggio che, secondo le fonti storiche, era già apprezzato da Plinio il Vecchio.

L’Axridda presenta una pasta friabile di colore giallo paglierino e una crosta dura, tendente al grigio. Il latte ovino, di pecora di razza sarda, è lavorato a crudo con solo caglio di vitello: la cagliata, una volta formatasi viene rotta, posta nelle forme e quindi salata. All’inizio della maturazione, le forme di Axridda, di un peso che varia dai due ai quattro chilogrammi, vengono ribaltate e pulite con acqua tiepida e olio di lentisco (un prezioso olio ricavato dalle bacche dell’omonimo arbusto). Trascorsi circa sette mesi, il formaggio è pronto per essere ricoperto di argilla: si crea un impasto a base della sostanza minerale, estratta da alcune cave limitrofe a Escalaplano, e di olio di lentisco, indispensabile al fine di evitare che l’argilla, una volta asciutta, si spacchi; la consistenza dell’impasto può essere più o meno fluida, ma ciò che conta è creare due strati per uno spessore di circa cinque millimetri. Dopo una maturazione minima di un mese, l’Axridda è pronto per il taglio, sebbene una stagionatura più prolungata ne esalti al meglio le caratteristiche organolettiche.

Questa tecnica, conosciuta, come detto, fin dall’Età romana, nasce da una necessità legata alla conservazione del formaggio. Durante le torridi estati sarde, il pecorino va incontro a un più rapido processo di deterioramento. Ed è qui, in questo contesto, che l’argilla entra in campo: creando una patina sulla parte esterna del pecorino ne preserva l’umidità, ne rallenta la degradazione e, allo stesso tempo, lo protegge da muffe e acari.

Su casu cun s’axridda – letteralmente “il formaggio con l’argilla” –, come è chiamato in Sardegna, è un prodotto raro, espressione di una tradizione che lentamente rischia di spegnersi e simbolo di un allevamento eroico che si fa portavoce della piccola arte casearia locale. Il latte prodotto, infatti, dai tre milioni di pecore allevate nella regione è perlopiù impiegato nella produzione di Pecorino Romano DOP e Pecorino Sardo DOP. Ma grazie al Presidio Slow Food, l’Axridda può – e merita – di sopravvivere.

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Il tabasco: una salsa, protagonista di molti cocktail, che “ha fatto la guerra”

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Ha poco più di un secolo e mezzo di vita, ma, nonostante l’età, il tabasco non ha perso lo spirito piccante e allegro che, dalla metà dell’Ottocento, lo contraddistingue. Questa salsa, protagonista del noto Bloody Mary, è un ingrediente adoperato molto spesso in miscelazione, che dona un twist piccante ai cocktail.

Il tabasco prende il nome dall’omonima cultivar di peperoncino, della specie Capsicum frutescens, originaria, nemmeno a farlo apposta, dello Stato messicano di Tabasco. La salsa, dalla consistenza corposa e di un rosso intenso simile al colore della passata di pomodoro, è prodotta solo con tre ingredienti, peperoncino tabasco, ovviamente, aceto bianco e sale, e viene fatta invecchiare in botti di legno di quercia per un massimo di tre anni.

A oggi solo un’azienda al mondo confeziona e commercializza il tabasco: la McIlhenny Company, con sede ad Avery Island – una zona paludosa della Louisiana distante duecento chilometri da New Orleans –, possiede fin dal 1870 il brevetto di produzione del tabasco e ciò ha fatto di esso la prima salsa prodotta a livello industriale degli Stati Uniti d’America.

La storia della salsa tabasco ha avuto inizio poco prima dello scoppio della Guerra di secessione americana, combattutasi tra il 1861 e il 1865.

Nel 1849 le coltivazioni di peperoncino del colonnello Maunsell White attirarono l’interesse della stampa locale: il New Orleans Daily Delta dedicò un articolo a esse, chiamando però erroneamente questo peperoncino tobasco. Dieci anni più tardi, il colonnello White produsse con i suoi peperoncini la prima salsa e, entusiasta del buon sapore, diede la ricetta e alcuni peperoncini a un amico, Edmund McIlhenny, appassionato gastronomo e abile giardiniere, che iniziò a coltivare ad Avery Island.

Per via del conflitto in corso, nel 1863 (anno in cui White morì), McIlhenny fu costretto a lasciare la Louisiana e trovare riparo in Texas, a San Antonio. Solo nel 1865, al termine della guerra, McIlhenny poté far ritorno ad Avery Island. Ad accoglierlo vi era solo distruzione: la piantagione di tabasco era stata gravemente danneggiata, ma, nonostante i danni subiti, riuscì a riprendere la coltivazione di peperoncini.

Ci vollero cinque anni, ma nel 1870 McIlhenny brevettò la sua salsa, che battezzò tabasco. Il successo fu incredibile e immediato, sia in America sia nel Vecchio Mondo: nel 1872 venne aperto a Londra un ufficio per la vendita di tabasco in Europa.

Ai giorni nostri la McIlhenny Company produce quotidianamente 700.000 bottiglie di tabasco; ognuna di esse contiene 720 gocce di questo prezioso condimento noto per la sua piccantezza.

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Dal cedro al mandarino, alla scoperta della storia e delle origini degli agrumi

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«E poi / kumquat neri che maturano in estate / mandarini gialli, arance, pomeli / […] / sono sparsi tra i palazzi posteriori / dai filari nei frutteti a nord / si estendono su colline e montagnole / e scendono fino alla pianura». Questi versi di Rapsodia della Suprema Foresta, componimento di Sima Xiangru, poeta cinese vissuto nel II secolo a.C., illustrano come la coltivazione degli agrumi, in Cina, risalga a un’epoca remota e, forse, proprio sotto il cielo del Celeste Impero è stata avviata.
Nella provincia cinese dello Yunnan è stato rinvenuto un fossile di foglia di agrume risalente al Miocene, a prova della teoria secondo la quale gli agrumi sono originari della zona orientale della regione himalayana e da lì si sono diffusi verso sud ed est.

Dei frutti di yuzu.

Difatti, le centinaia di varietà di agrumi che oggi troviamo in commercio discendono da dieci specie ancestrali, alcune conosciute, altre più rare. Di queste dieci specie, sette provengono dall’Asia e sono i più comuni cedro, mandarino, pomelo e kumquat e i più esotici micrantha, piccolo agrume sferico coltivato nelle Filippine, limone di Ichang, acido e leggermente amaro che prende il nome dalla città di Yichang, nella Cina Centro-occidentale, e mandarino di Mangshan, simile nell’aspetto al classico mandarino e originario dell’area montana di Mangshan nella provincia cinese dello Hunan; le tre rimanenti, invece, sono originarie dell’Australia e sono il finger lime, conosciuto anche come caviale di lime per via delle vescicole ricche di succo che contiene, la limetta del deserto australiano, l’unica specie in grado di crescere in terreni aridi, e la limetta australiana tonda, di piccole dimensioni e dalla forma sferica.

Cedro, pomelo e mandarino sono le tre specie che hanno dato vita al maggior numero di ibridazioni che oggi conosciamo, alcune frutto di mutazioni spontanee, altre opera dell’uomo. Il limone, ad esempio, è il risultato dell’incrocio tra cedro e arancia amara, a sua volta nata dall’unione tra mandarino e pomelo; o ancora il chinotto, che si ritenga essere il risultato di una mutazione dell’arancia amara, il lime messicano, incrocio tra cedro e micrantha, e lo yuzu, apprezzatissimo al giorno d’oggi, ibrido tra mandarino e limone di Ichang.

Quella degli agrumi è una storia fatta di viaggi che iniziò con le conquiste di Alessandro Magno. Il re di Macedonia invadendo territori indiani attraversati dall’Indo conobbe il cedro, agrume originario dell’Assam, che introdusse in Occidente favorendone la diffusione in Grecia, Palestina, Siria ed Egitto. E così il cedro, il primo agrume addomesticato dall’uomo, fece la sua comparsa nei trattati greci e latini: il primo a menzionarlo fu Teofrasto di Ereso, contemporaneo di Alessandro Magno, nell’Historia plantarum, mentre il botanico Dioscoride, nel suo De materia medica, lo consigliava come medicinale; ma la descrizione più completa sulla pianta del cedro e sui suoi frutti è quella contenuta nella Naturalis historia dello scrittore e naturalista romano Plinio il Vecchio, per citare solo alcuni esempi.

L’espansione islamica, che dal VII secolo interessò Medio Oriente, Africa Settentrionale, Penisola Iberica e Italia Meridionale, contribuì in maniera decisiva alla diffusione degli agrumi nel bacino del Mediterraneo. Nel florido contesto culturale che caratterizzò l’al-Andalus (la Spagna islamica) venne redatto, tra l’XI e il XII secolo, il primo trattato di agrumicoltura, riguardante la coltivazione di cedro, limone, pomelo e arancia amara. Quest’ultimo frutto, nel corso del Medioevo, conobbe una notevole diffusione tanto da apparire sullo sfondo di uno dei più apprezzati dipinti dell’epoca: il Ritratto dei coniugi Arnolfini di Jan van Eyck, oggi conservato alla National Gallery di Londra.

Solo più tardi, con l’avvento dell’Età moderna e l’intensificarsi dei traffici commerciali tra Occidente e Oriente fece il suo arrivo in Europa l’arancia dolce, portata, con molta probabilità, dai commercianti portoghesi che la conobbero durante le loro soste nei porti cinesi.

Il cedro mano di Budda.

Sebbene gli agrumi fossero coltivati per lo più a fini ornamentali e collezionistici, nella stessa epoca, come conseguenza della conquista dell’America, giunsero nel Nuovo Mondo. Dai primi aranci piantati nell’odierno Messico, gli agrumi si spansero in tutto il continente, dal Brasile alla Georgia. Fu proprio ai Caraibi, per la precisione nelle Antille, che nella metà del Settecento venne “creato” il pompelmo; a lungo creduto una varietà di pomelo, in realtà è il frutto dell’unione tra quest’ultimo e l’arancia dolce.

Nell’Ottocento, oltre all’arrivo del mandarino da Canton, la coltivazione degli agrumi divenne un’attività, essenzialmente, a scopo commerciale, portandoli a essere oggigiorno alcuni dei frutti più utilizzati in cucina e nella miscelazione con una produzione annua di circa 130.000.000 di tonnellate a livello globale.

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