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Quale ghiaccio scelgo? Un elemento fondamentale per realizzare un cocktail

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Si fa presto a dire ghiaccio; in fin dei conti non è altro che acqua allo stato solido. Eppure nella miscelazione non è così. All’interno di un cocktail, il ghiaccio non è un elemento di secondo ordine, ma un ingrediente in tutto e per tutto. Non solo mantiene la bevanda alla corretta temperatura di servizio, ma influisce anche sulla qualità complessiva del drink e, di conseguenza, sulla quantità di acqua che, con il trascorrere del tempo, lo va a diluire.

Per questa ragione esistono differenti tipologie di ghiaccio, ognuna della quali trova un proprio impiego a seconda del cocktail che si vuole realizzare e del bicchiere che lo contiene.

Il cubetto è il tipo di ghiaccio più comune, in genere perché la sua forma si adatta con facilità a qualsiasi bicchiere. Può essere di varie dimensioni e presenta una superficie ampia e spessa che gli permette di non sciogliere velocemente, senza alterare il sapore della bevanda. Questo tipo di ghiaccio è indicato per i cocktail che devono essere agitati o mescolati.Il cubetto può anche essere vuoto, ovvero cavo all’interno. In questo caso offre una maggiore superficie raffreddante ma, di contro, fonde più in fretta rispetto al cubetto classico.

Il ghiaccio nugget si presenta sotto forma di granuli di ghiaccio compresso di forma pressoché cilindrica. Di piccola dimensione e leggero, questo ghiaccio, con un residuo di acqua attorno all’otto per cento, risulta molto asciutto. La sua leggerezza lo porta a galleggiare e ciò evita l’ossidazione delle bevande; è ottimo nei drink gasati e nei cocktail pestati.

Decisamente più scenografica è, invece, la ice ball, una sfera di ghiaccio utilizzata perlopiù per i liquori o per i cocktail dal sapore forte, come l’Old Fashioned, serviti in bicchieri lowball. Come il cubetto, mantiene la bevanda fresca e si scioglie lentamente. Avendo però una superficie ridotta, l’ice ball tende a raffreddare in maniera meno omogenea il liquido che la contiene.

Per i cocktail che richiedono l’impiego di un bicchiere highball, dalla forma slanciata, come il gin tonic, la tipologia di ghiaccio indicata è il collins spears. Il collins spears altro non è che un blocco di ghiaccio lungo e spesso, dalla forma di parallelepipedo, ideale per mantenere freddo un miscelato servito in un bicchiere alto senza diluirne il sapore.

Il ghiaccio secco – andride carbonica allo stato solido – crea, invece, un sorprendente effetto fumo nei cocktail, grazie al processo di sublimazione. Essendo più pesante del ghiaccio tradizionale precipita sul fondo del bicchiere e raffredda in maniera più blanda la bevanda. Attenzione però a non ingerirlo o appoggiarlo alle labbra, la sua temperatura raggiunge i – 78,48 °C!

Infine, un piccolo consiglio estetico. Per ottenere anche a casa un ghiaccio cristallino, trasparente e privo di quella patina opaca, basta porre nel congelatore un piccolo frigo portatile (come quelli che si portano al mare) senza coperchio colmo di acqua. Trascorso un giorno, il blocco di ghiaccio va estratto e, armati di coltello seghettato e martello di legno, va tagliato e, per i più pignoli, levigato fino a ottenere la forma desiderata. Il processo che permette di ottenere del ghiaccio limpido è chiamato directional freezing: l’acqua, all’interno del frigo portatile, congela solo dall’alto verso il basso e le impurità si depositano sul fondo.

Siamo bravi, belli e buoni. O almeno siamo convinti di esserlo! Amiamo cucinare, mangiare, bere, viaggiare, fotografare, conoscere e, in generale, ci lasciamo attrarre da tutto quel che merita un approfondimento. Viviamo lasciandoci calamitare da tutto ciò che piace e ci impegniamo a raccontarlo nel migliore dei modi. Altre nostre grandi passioni: gli animali domestici, l'orticoltura, gli alimenti genuini e sani e l'attività fisica. Come puoi interagire con noi? Scrivici a redazione@zedmag.it

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Dal cedro al mandarino, alla scoperta della storia e delle origini degli agrumi

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«E poi / kumquat neri che maturano in estate / mandarini gialli, arance, pomeli / […] / sono sparsi tra i palazzi posteriori / dai filari nei frutteti a nord / si estendono su colline e montagnole / e scendono fino alla pianura». Questi versi di Rapsodia della Suprema Foresta, componimento di Sima Xiangru, poeta cinese vissuto nel II secolo a.C., illustrano come la coltivazione degli agrumi, in Cina, risalga a un’epoca remota e, forse, proprio sotto il cielo del Celeste Impero è stata avviata.
Nella provincia cinese dello Yunnan è stato rinvenuto un fossile di foglia di agrume risalente al Miocene, a prova della teoria secondo la quale gli agrumi sono originari della zona orientale della regione himalayana e da lì si sono diffusi verso sud ed est.

Dei frutti di yuzu.

Difatti, le centinaia di varietà di agrumi che oggi troviamo in commercio discendono da dieci specie ancestrali, alcune conosciute, altre più rare. Di queste dieci specie, sette provengono dall’Asia e sono i più comuni cedro, mandarino, pomelo e kumquat e i più esotici micrantha, piccolo agrume sferico coltivato nelle Filippine, limone di Ichang, acido e leggermente amaro che prende il nome dalla città di Yichang, nella Cina Centro-occidentale, e mandarino di Mangshan, simile nell’aspetto al classico mandarino e originario dell’area montana di Mangshan nella provincia cinese dello Hunan; le tre rimanenti, invece, sono originarie dell’Australia e sono il finger lime, conosciuto anche come caviale di lime per via delle vescicole ricche di succo che contiene, la limetta del deserto australiano, l’unica specie in grado di crescere in terreni aridi, e la limetta australiana tonda, di piccole dimensioni e dalla forma sferica.

Cedro, pomelo e mandarino sono le tre specie che hanno dato vita al maggior numero di ibridazioni che oggi conosciamo, alcune frutto di mutazioni spontanee, altre opera dell’uomo. Il limone, ad esempio, è il risultato dell’incrocio tra cedro e arancia amara, a sua volta nata dall’unione tra mandarino e pomelo; o ancora il chinotto, che si ritenga essere il risultato di una mutazione dell’arancia amara, il lime messicano, incrocio tra cedro e micrantha, e lo yuzu, apprezzatissimo al giorno d’oggi, ibrido tra mandarino e limone di Ichang.

Quella degli agrumi è una storia fatta di viaggi che iniziò con le conquiste di Alessandro Magno. Il re di Macedonia invadendo territori indiani attraversati dall’Indo conobbe il cedro, agrume originario dell’Assam, che introdusse in Occidente favorendone la diffusione in Grecia, Palestina, Siria ed Egitto. E così il cedro, il primo agrume addomesticato dall’uomo, fece la sua comparsa nei trattati greci e latini: il primo a menzionarlo fu Teofrasto di Ereso, contemporaneo di Alessandro Magno, nell’Historia plantarum, mentre il botanico Dioscoride, nel suo De materia medica, lo consigliava come medicinale; ma la descrizione più completa sulla pianta del cedro e sui suoi frutti è quella contenuta nella Naturalis historia dello scrittore e naturalista romano Plinio il Vecchio, per citare solo alcuni esempi.

L’espansione islamica, che dal VII secolo interessò Medio Oriente, Africa Settentrionale, Penisola Iberica e Italia Meridionale, contribuì in maniera decisiva alla diffusione degli agrumi nel bacino del Mediterraneo. Nel florido contesto culturale che caratterizzò l’al-Andalus (la Spagna islamica) venne redatto, tra l’XI e il XII secolo, il primo trattato di agrumicoltura, riguardante la coltivazione di cedro, limone, pomelo e arancia amara. Quest’ultimo frutto, nel corso del Medioevo, conobbe una notevole diffusione tanto da apparire sullo sfondo di uno dei più apprezzati dipinti dell’epoca: il Ritratto dei coniugi Arnolfini di Jan van Eyck, oggi conservato alla National Gallery di Londra.

Solo più tardi, con l’avvento dell’Età moderna e l’intensificarsi dei traffici commerciali tra Occidente e Oriente fece il suo arrivo in Europa l’arancia dolce, portata, con molta probabilità, dai commercianti portoghesi che la conobbero durante le loro soste nei porti cinesi.

Il cedro mano di Budda.

Sebbene gli agrumi fossero coltivati per lo più a fini ornamentali e collezionistici, nella stessa epoca, come conseguenza della conquista dell’America, giunsero nel Nuovo Mondo. Dai primi aranci piantati nell’odierno Messico, gli agrumi si spansero in tutto il continente, dal Brasile alla Georgia. Fu proprio ai Caraibi, per la precisione nelle Antille, che nella metà del Settecento venne “creato” il pompelmo; a lungo creduto una varietà di pomelo, in realtà è il frutto dell’unione tra quest’ultimo e l’arancia dolce.

Nell’Ottocento, oltre all’arrivo del mandarino da Canton, la coltivazione degli agrumi divenne un’attività, essenzialmente, a scopo commerciale, portandoli a essere oggigiorno alcuni dei frutti più utilizzati in cucina e nella miscelazione con una produzione annua di circa 130.000.000 di tonnellate a livello globale.

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Alla scoperta del quinto sapore: l’umami, il gusto che arriva dal Giappone

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A scuola durante la lezione di scienze dedicata al senso del gusto ci è stato insegnato che la nostra lingua, tramite le papille gustative, è in grado di percepire quattro differenti sapori: acido, amaro, dolce e salato. Tuttavia, all’appello mancava il quinto sapore fondamentale, l’umami, di cui nessuno fino a pochi anni fa aveva mai sentito parlare.
L’umami è il sapore scoperto più di recente e, come definito dall’Umami Information Center, è il gusto del glutammato, dell’inosinato e del guanilato, ovvero il cosiddetto “saporito”.

La sua scoperta è avvenuta agli inizi del secolo scorso per merito di Kikunae Ikeda, professore di chimica dell’Università Imperiale, oggi Università di Tokyo. Nel 1907 Kikunae rimase colpito dal sapore intenso delle alghe kombu che la moglie acquistava regolarmente per la preparazione del brodo dashi; un sapore a lui familiare, che aveva avuto modo di riscoprire qualche anno prima quando in Germania, durante un periodo di studi, mangiò per la prima volta pomodori, asparagi e formaggi. Iniziò così a studiare le sostanze presenti nelle alghe, conscio del fatto che quel sapore fosse qualcosa di inedito, differente dai quattro già conosciuti. Attraverso vari esperimenti il professor Ikeda arrivò a identificare nell’acido glutammico, un amminoacido, il principale componente del caratteristico gusto del brodo dashi, e quindi dell’umami. Isolato l’acido, Kikunae decise di creare un condimento dallo spiccato sapore umami che, potenzialmente, avrebbe potuto risolvere il problema della povertà alimentare che colpiva le fasce meno abbienti della popolazione: aggiungendo bicarbonato di sodio all’acido glutammico diede vita, nel 1908, al glutammato monosodico, un sale dall’aspetto cristallino.

Delle forme di Parmigiano Reggiano.

Nel corso del XX secolo gli studi sull’umami proseguirono. Nel 1913, Shintaro Kodama, studente del professor Ikeda, identificò l’inosinato come il nucleotide responsabile del sapore umami del katsuobushi, i fiocchi di tonnetto striato essiccati; mentre nel 1957 lo scienziato Akira Kuninaka scoprì che a conferire il gusto umami ai funghi shiitake essiccati è il guanilato, un altro nucleotide.

Alghe kombu disidratate.

Di umami si parla molto negli ultimi tempi, soprattutto nell’alta ristorazione, settore in cui i grandi chef cercano di includere questo sapore fondamentale nelle loro creazioni. L’umami non è da considerare come un sapore esotico, alieno alla nostra cultura culinaria solo perché scoperto nel lontano Oriente e quindi associato a prodotti come la salsa di soia, le alghe o il nam pla phirk, una salsa di pesce diffusa in Thailandia. Sono moltissimi gli alimenti che consumiamo quotidianamente ricchi di umami: pomodori, asparagi, champignon, gamberi, capesante, tartufi, prosciutto crudo e formaggi stagionati, solo per citarne alcuni. L’umami era già conosciuto dagli antichi Romani, basti pensare al garum, il condimento ottenuto dalla fermentazione del pesce e delle sue interiora, un vero concentrato di umami.

L’acido glutammico è infatti presente in tutti gli alimenti, ma la nostra lingua è in grado di percepire solo quello libero. Processi come l’invecchiamento, la stagionatura e la fermentazione portano a un aumento della quantità di acido glutammico libero e, di conseguenza, a un sapore umami più inteso. Ed ecco che il Parmigiano Reggiano stagionato ventiquattro mesi presenta la stessa concentrazione di glutammato della salsa di soia.

Funghi shiitake essiccati.

Non demonizziamo quindi il glutammato, ma vediamolo come fonte di piacere per il nostro palato: l’umami ha la capacità di potenziare la percezione degli altri sapori.

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La storia golosa e millenaria delle caramelle: un viaggio nella dolcezza

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Caramelle non ne voglio più cantava Mina nel 1972 in uno dei suoi più grandi successi discografici. Noi invece, a differenza della Tigre di Cremona, ne vogliamo ancora, ancora e ancora! Che siano dure o gommose, alla frutta o alla cola, senza zucchero o ricoperte di zuccherini, le caramelle sono un piccolo momento di piacere per il palato che rendono ancora più gioioso il periodo di carnevale.

L’origine delle caramelle si perde nella storia e ha inizio nell’India del IV secolo a.C., periodo che conobbe la penetrazione di Alessandro Magno nel subcontinente. Nel Paese asiatico si produceva la khanda, una caramella a base di succo di zucchero di canna e acqua, che una volta bolliti e ridotti venivano fatti solidificare e poi spezzettati. Ancor prima Egizi, Greci e Romani consumavano frutta candita nel miele, una preparazione che può essere considerata un’antenata della caramella, nata dall’esigenza di conservare un prodotto altamente deperibile.

Il termine “caramella” risale all’XI secolo quando i crociati di ritorno dal Vicino Oriente portarono in Europa quelle pastiglie a base di zucchero di canna che chiamavano canna mellis, parola divenuta nel tempo calamellus. Per tutto il corso del Medioevo le caramelle erano adoperate come medicina, soprattutto per curare il mal di gola e per favorire la digestione, per via delle spezie che venivo impiegate nella loro confezione. Tuttavia, proprio per i costosi ingredienti impiegati, erano un bene che solo i nobili potevano permettersi e che erano soliti offrire ai loro commensali in occasione di sontuosi banchetti. Tra queste vi era la chamber spice, una pastiglietta realizzata con zucchero e, come evoca il nome, un tripudio di spezie, tra le quali zenzero, chiodi di garofano, anice e coccole di ginepro, e frutta secca.
Grazie all’avvento della rivoluzione industriale la produzione delle caramelle fu protagonista di uno sviluppo notevole, merito anche di una maggiore accessibilità allo zucchero e a un abbattimento dei costi di lavorazione.

Nel 1847 l’invenzione di una macchina, soprannominata toy machine, composta da una serie di stampi permise di velocizzare la produzione di caramelle e crearne contemporaneamente di diverse in forma e dimensione. E così nel Vecchio e nel Nuovo Mondo fecero la loro comparsa i famosi candy store, negozi di caramelle che vendevano dolciumi di ogni tipo, alcuni dei quali prodotti con additivi e coloranti tossici come il cromato di piombo e il cinabro.

La consistenza delle caramelle è determinata dalla temperatura che lo sciroppo di zucchero raggiunge durante la cottura e dalla concentrazione del dolcificante. Al più comune saccarosio viene aggiunto sciroppo di mais, contenente glucosio, utile per rendere l’impasto più malleabile, a cui vengono addizionati coloranti e aromi.

I marshmallow come noi li conosciamo oggi, perfetti da arrostire su un fuoco e da usare come decorazione per una cioccolata calda, furono inventati nel XIX secolo in Francia, secondo una preparazione conosciuta fin nell’Egitto precristiano a base di linfa di malva estratta dalle radici della pianta. Solo al volgere del secolo, l’esigenza di creare marshmallow più stabili portò i pasticceri a sostituire la linfa di malva con gelatina animale e amido di mais. Ed è proprio la gelatina il segreto delle caramelle gommose, in quanto le rende elastiche e scioglievoli.

Di tutt’altra consistenza sono, invece, i lecca-lecca e i konpeitō. I primi, coloratissimi e spesso di dimensioni titaniche, furono inventati nella Russia del Quattrocento, Paese in cui lo zucchero era adoperato come conservante e che diede i natali a queste caramelle infilzate su bastoncini. La loro texture è talmente dura che è impossibile riuscire a morderli, ma è sopperita dal fatto che possono durare per ore e ore.

I konpeitō sono dei minuscoli dolciumi consumati per lo più in Giappone ma di origine portoghese. Furono proprio i portoghesi a far conoscere agli abitanti del Paese del Sol levante la lavorazione dello zucchero: il risultato sono dei confetti – konpeitō deriva dal portoghese confeito – caratterizzati da piccole protuberanze che si formano durante la cottura. Lo sciroppo di zucchero viene lentamente colato in una vasca riscaldata coperta da granelle di zucchero; un processo che richiede fino a tredici giorni e che ancora oggi è svolto artigianalmente.

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