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Sfornare cose buone da dietro le sbarre: quando il carcere è occasione di riscatto

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Il tempo è una risorsa preziosa a cui spesso non possiamo accedere. Ma per alcuni non è così: ci sono realtà, come quelle carcerarie, in cui il tempo è l’unico bene di cui le persone dispongono e serve un modo per impiegarlo e per dare il via a un cambiamento permanente. La sola risposta punitiva che le carceri offrono non è sufficiente per garantire il riscatto e l’inclusione sociale indispensabili ai detenuti che, scontata la loro pena, devono prendere in mano la propria vita e ricostruirla daccapo. È in questo contesto che l’economia e il lavoro carcerari si rivelano essenziali: permettere ai detenuti di apprendere un mestiere, gettare le basi per il proprio futuro e ridurre drasticamente il tasso di recidiva.

In Italia sono molte le realtà che forniscono questa opportunità, alcune delle quali operano nel settore food & beverage. Una delle più famose è la Pasticceria Giotto, inaugurata nel 2005 all’interno della Casa di reclusione Due Palazzi di Padova. Il laboratorio, che inizialmente contava appena una manciata di detenuti, oggi ne conta quaranta, affiancati da quattro pasticceri professionisti. Ogni detenuto, la cui giornata lavorativa è di quattro ore, è assunto tramite un regolare contratto di lavoro e riceve uno stipendio di cui la famiglia può usufruire. Ma l’assunzione non è così semplice: i detenuti devono seguire un percorso di selezione che prevede, oltre alla verifica dei profili, una valutazione psicologica e un tirocinio della durata di sei mesi. La produzione di Pasticceria Giotto comprende una vasta gamma di prodotti da forno dolci e salati, cioccolatini, praline e l’inimitabile panettone che ha reso questo laboratorio famoso in Italia e all’estero. I detenuti di Pasticceria Giotto producono ogni anno circa 60.000 panettoni artigianali vincitori di vari premi enogastronomici.

Molte altre carceri italiane offrono progetti di inserimento sociale e lavorativo simili a quello della Casa di reclusione Due Palazzi di Padova. Ad esempio, a Milano nell’Istituto penale minorile Cesare Beccaria è stato avviato, nel 2015, il progetto Buoni Dentro, un laboratorio di panificazione con annesso punto vendita; a Verbania, nella Casa circondariale è attivo il progetto Banda Biscotti, mentre nel Carcere minorile Malaspina di Palermo si trova il laboratorio di Cotti in Fragranza.
E non pochi sono i detenuti che dopo la scarcerazione hanno avviato, grazie alle competenze acquisite, una propria attività in questo settore.

COTTI IN FRAGRANZA A PALERMO
Anche i minori che hanno compiuto scelte sbagliate hanno il diritto di potersi redimere e impiegare il tempo a loro disposizione per progettare il proprio futuro. Questo è l’obiettivo di Cotti in Fragranza, un laboratorio in cui vengono preparati prodotti da forno, nato nel 2016 all’interno del Carcere minorile Malaspina di Palermo. Cotti in Fragranza è un’impresa sociale che impiega materie prime di alta qualità per una produzione made in Sicily d’eccellenza. I giovani coinvolti sono i protagonisti di ogni fase della produzione, dalle preparazioni in laboratorio alle strategie di marketing, e sono invitati a conoscere il valore di ogni prodotto nonché l’impatto sociale, ambientale e territoriale del proprio operato.

I prodotti, che comprendono biscotti, come i mammucci al pistacchio e i frollini agli agrumi, cioccolato e snack salati, come i picciottelli al formaggio ed erbe aromatiche, sono distribuiti in tutta la penisola e dal 2019 hanno varcato i confini dell’Italia arrivando fino in Belgio. In totale, nei primi cinque anni di attività di Cotti in Fragranza, i giovani detenuti hanno sfornato 27.000 chilogrammi di biscotti e venduto più di 102.000 confezioni. Ma il numero più importante di tutti è trentatré, ovvero il numero di percorsi professionali avviati, tra stage, tirocini e contratti, anche a tempo indeterminato. Cotti in Fragranza è inarrestabile.
Nel 2018, nell’ex convento Casa San Francesco nel quartiere Ballarò, è stato inaugurato un secondo nucleo dove i giovani preparano pasti per le mense locali e per servizi di catering; mentre l’anno successivo è stato aperto Al Fresco, un bistrot nel cuore di Palermo lontano dalle mura del Malaspina.
cottiinfragranza.com

BANDA BISCOTTI A VERBANIA
Il nome rimanda allo sgangherato gruppo di malviventi Disney: nella Casa circondariale di Verbania nel 2007 è stata fondata una banda di pasticcieri che ogni giorno produce 250 chilogrammi di biscotti. Il suo nome è Banda Biscotti.
Banda Biscotti è un progetto di economia carceraria che pone al centro le storie dei detenuti, il loro bisogno di riscatto e la volontà di apprendere una professione concreta. Perché il lavoro, quello vero, fatto di impegno, dedizione e fatica, può produrre valore e giocare un ruolo determinante nel futuro dei detenuti.

I quaranta pasticcieri che nel corso degli anni sono stati impiegati sfornano ogni giorno venti varietà di biscotti, dai barabitt – parola che nel dialetto ossolano indica i ragazzi difficili – all’olio e cacao ai cookies, dalle polentine alle galeotte ai fiocchi d’avena, passando per i baci di dama. Le creazioni hanno radici nella tradizione piemontese, ma sono rivisitate in chiave biologica ed equosolidale.

Le materie prime utilizzate sono il prodotto di filiere virtuose che garantiscono un elevato livello di qualità. Gli ingredienti, infatti, sono di origine biologica certificata, scelti con cura e attenzione per garantire non solo il rispetto dell’ambiente e delle persone, ma anche il loro gusto e proprietà; tra questi, lo zucchero di canna, il cacao e il cioccolato sono distribuiti da Altromercato, la realtà più conosciuta per il commercio equosolidale. Banda Biscotti dà voce ai detenuti e, facendo sentire le loro storie, la possibilità di scrivere il loro avvenire.
bandabiscotti.it

Senza libri non posso sopravvivere, ma nemmeno senza il buon cibo. Dopo un master in Editoria sono approdato nel mondo della comunicazione, in particolare nel settore food. Amante di tutto quello che proviene dall’Oriente e di fotografia, trascorro il tempo libero occupandomi delle mie piante e colleziono fototessere. E poi impazzisco per l’odore dei fiammiferi appena spenti.

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Autunno in Carinzia: festival ed eventi per celebrare l’arrivo della stagione

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La Carinzia, regione meridionale dell’Austria, è il territorio dove la cultura austriaca incontra quella slovena e quella italiana. In questo luogo da sogno, tra montagne, boschi e laghi, spiccano per la loro qualità specialità enogastronomiche uniche, protagoniste di eventi imperdibili.

La Carinzia, infatti, vanta il primato di essere stata la prima meta al mondo a meritare l’ambito riconoscimento di destinazione Slow Food Travel, dove è possibile scoprire e gustare il meglio della cucina d’oltralpe.

L’arrivo dell’autunno è qui celebrato con festival e manifestazioni che mettono al centro del proprio programma le eccellenze gastronomiche di questa terra.

Festa del pane

Nella valle Lesachtal, dal 31 agosto al 1° settembre, la Festa del pane fatto in casa è un vero e proprio tuffo nel passato. L’intera zona si mobilita per contribuire all’organizzazione degli eventi, che includono spettacoli musicali e workshop dedicati alla preparazione del pane secondo la tradizione.

Durante il festival, il pane è cotto al momento e tutti i partecipanti hanno l’opportunità di portare a casa un sacchetto di pane fresco e fragrante.

Foto di Arnold Poeschl.

Le Giornate della cucina Alpe-Adria

Dal 6 al 22 settembre si terranno le Giornate della cucina Alpe-Adria, che, per l’edizione 2024, offriranno ai partecipanti quattro diversi tour tematici: “Dal fornaio all’azienda vinicola”, “Tra le città dei draghi e l’entroterra sloveno”, “Alla scoperta dei sapori friulani nei dintorni di Udine” e lo “Slow Food Tour”. Questi itinerari guideranno i visitatori alla scoperta di produttori d’eccellenza e alimenti straordinari, attraversando Carinzia, Slovenia e Italia.

Le Giornate della cucina Alpe-Adria offriranno la possibilità di incontrare ottanta dei migliori produttori del territorio direttamente nella città rinascimentale di Klagenfurt. Nel centro storico, i visitatori troveranno una selezione di produttori di alimenti provenienti da Carinzia, Slovenia, Istria, Friuli-Venezia Giulia e Veneto.

KunstSinn

Dal 6 al 29 settembre a Neuhaus e nella Carinzia Meridionale avranno luogo una serie di appuntamenti che coniugano la coltivazione del grano saraceno e il mondo dell’arte e della musica. Il 28 settembre, ad esempio, si terrà una serata di esperienze uniche per tutti i sensi con il menu gourmet di quattro portate e il concerto del trio Keischn Kunterbunt.

Foto di Rossmann.

Notti gastronomiche a Bad Kleinkirchheim

Dalla metà di settembre alla metà di ottobre, ogni venerdì e sabato, nel comune di Bad Kleinkirchheim si terranno le notti gastronomiche, un viaggio culinario all’insegna del gusto, per immergersi nella cucina regionale della Carinzia.

Le notti gastronomiche nascono per rappresentare il legame con il territorio e per promuovere la preziosa collaborazione tra i produttori carinziani e i cuochi di Bad Kleinkirchheim.

Di sera, le trattorie e i ristoranti che aderiscono all’iniziativa proporranno prelibati menù di più portate. I piatti saranno preparati esclusivamente con prodotti locali.

Foto di UnterwirtHuettn.

Tavole intorno al lago Millstätter See

Fino al 19 ottobre, i paesaggi che circondano il lago Millstätter See si trasformano in punti di ristoro culinari unici.

L’obiettivo delle Tavole intorno al lago Millstätter See è quello di far assaporare la tradizione culinaria locale immersi in un luogo suggestivo. Le aziende della zona presentano la loro cucina, che si distingue per l’uso di erbe aromatiche, verdure selvatiche, pesce fresco e diverse prelibatezze regionali.

Ogni settimana, le tavole imbandite (ognuna con un tema unico) mettono in mostra la varietà e la ricchezza dell’offerta culinaria della Carinzia.

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Paese che vai e street food che trovi: il meglio nel mondo e in Italia

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Nell’ultimo decennio, quella per il cibo di strada, il cosiddetto street food, è diventata una vera e propria moda. I festival dedicati, di stagione in stagione, aumentano nel numero e sempre di più sembrano essere gli imprenditori che mostrano interesse nell’acquistare un ristorante su ruote e far conoscere i loro piatti in tutto il Paese e, se possibile, anche al di fuori dei confini. Da un lato, se per molti questa tendenza rappresenta una novità, un modo per scoprire piatti inusuali, magari esotici e lontani dalla quotidianità, dall’altro, lo street food gode di una storia millenaria che da sempre ha accompagnato le più grandi civiltà del passato.

Già nell’antica Grecia, per strada, si vendevano pesciolini fritti e nella Cina imperiale i nobili erano soliti spedire i propri servitori ad acquistare sfiziosi manicaretti dagli ambulanti agli angoli dei vicoli per gustare del cibo diverso da quello che veniva preparato nelle loro dimore. Ma fu nella Roma antica che il cibo di strada divenne una vera e propria istituzione: perlopiù zuppe di legumi e pane erano serviti nelle tabernae, delle botteghe dotate di un bancone di pietra con affaccio sulla strada, o in bancarelle smontabili che i lixae, i venditori ambulanti, allestivano nei pressi dei luoghi sacri.

Una cosa è certa: nel corso della storia, l’aumento del consumo di cibo di strada è stato conseguenza dello sviluppo urbanistico. La possibilità di poter pasteggiare fuori casa costituiva per i molti abitanti dei centri urbani, che non disponevano di cucine o forni nei loro alloggi, l’unico sostentamento, soprattutto se questi appartenevano alle fasce più povere della società. Si pensi che ancora oggi a Bangkok il quaranta per cento della popolazione consuma quotidianamente street food, mentre a Mumbai si conta mezzo milione di venditori ambulanti di cibo.

Ogni nazione, così come ogni singola città, possiede un cibo di strada iconico, unico per preparazione e storia: dal pani puri indiano, una specie di frittella cava che viene riempita con una salsa speziata dalla consistenza acquosa o con patate, all’hot dog newyorkese grondante senape ai churros spagnoli da intingere nel cioccolato fuso.

Ciò che valica ogni confine geopolitico e accomuna lo street food di ogni Paese è la cottura, spesso espressa, di pochi ingredienti che combinati tra loro danno vita a succulenti manicaretti da mangiare con le mani. Ogni senso è coinvolto in questa esperienza gastronomica, dove l’ambiente cittadino ne diventa il palcoscenico, andando a colmare quello spazio esistente tra il pasto servito al ristorante e quello consumato nella cucina di casa.

Negli ultimi anni, da quando il fenomeno dello street food si è affermato come tendenza, il cibo di strada è stato più volte equiparato al cibo spazzatura. Tuttavia, da questo si differenzia per l’impiego di materie prime selezionate che vengono lavorate di fronte al cliente, il quale prende parte come spettatore al processo culinario in atto; a differenza di quanto accade nelle cucine delle grandi catene di fast food dove i prodotti semilavorati vengono preparati lontano dagli occhi del consumatore.

L’Italia, per quanto riguarda il cibo di strada, può competere con quelle nazioni che hanno fatto di questa tipologia di ristorazione uno degli elementi cardine della loro cultura. Il Belpaese offre una varietà di street food che sa soddisfare ogni palato.

A Venezia è possibile assaggiare il tipico scartosso de pesse, un cono di carta paglia ricco di pesce fritto e verdure: calamari, gamberi, sarde e schie accompagnati, quando è stagione, dalle castraure, ovvero i germogli apicali dei carciofi, e da polenta arrostita.

Simile nella forma ma più ricco nel contenuto è il cuoppo napoletano, una cornucopia del miglior fritto partenopeo: crocchè di patate, palle di riso, mozzarelle in carrozza, fiori di zucca ripieni e frittatine di pasta.

E così le frattaglie, emblema della cucina povera, sono un ingrediente tipico di molti cibi di strada. A Firenze ad andare per la maggiore è il panino con il lampredotto; il lampredotto altro non è che l’abomaso, uno dei quattro stomaci dei bovini, cotto in brodo vegetale e irrorato di salsa verde. Mentre a Palermo è possibile addentare il pani câ meusa, un panino farcito con un misto di frattaglie, tra cui fegato, trachea e milza (da qui il nome) di viletto condito con limone o una grattugiata di ricotta salata.

Come non citare, in conclusione, la mitica piadina? Compagna di mangiate notturne all’uscita delle discoteche della riviera romagnola, la versione tradizionale la vuole farcita con squacquerone, rucola e prosciutto crudo.

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Scatta, mangia e condividi: come il mondo dei social ha cambiato la cucina

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#foodporn. #foodie. #yummy. #foodgasm. Scorrendo la home di Instagram quante volte ci siamo imbattuti in questi hashtag e altri simili sotto a foto o reel di ricette, piatti stellati o legati alla cucina di tutti i giorni?

Sul web la cucina ha iniziato a far parlare di sé grazie all’avvento, all’inizio degli anni Duemila, dei primi blog e di YouTube, ma è merito dei social se negli ultimi dieci anni almeno è diventata uno degli argomenti più discussi.

I nostri smartphone ci permettono di connetterci con il mondo e di condividere, in tempo reale, tutto quello che facciamo. Sfera privata e sfera pubblica sono interconnesse fra loro, sfociano l’una nell’altra: il desiderio di far sapere a chi ci segue dove siamo, con chi e cosa stiamo facendo e la curiosità data dallo spiare le vite altrui vanno di pari passo con il senso di appagamento che riceviamo da questa condivisione. E il cibo non sfugge a questa legge.

È così che, attraverso Instagram, possiamo conoscere i gusti dei nostri follower o sapere qual è il loro ristorante preferito. E sotto la lente della fotocamera il cibo che fotografiamo o riprendiamo deve risultare tanto bello quanto buono perché, mai come ai giorni nostri, il detto “si mangia prima con gli occhi” ha valenza universale.

L’estetismo in cucina, tuttavia, non è di certo una novità del XI secolo e del mondo digitale. Pensiamo alle nature morte raffigurate nei dipinti dei pittori olandesi e fiamminghi del XVI e XVII secolo. Natura morta con formaggi, mandorle e krakelingen di Clara Peeters o Natura morta con pasticcio di pavone di Pieter Claesz sono due ottimi esempi: pietanze decorate secondo le mode dell’epoca e disposte con cura su tovaglie intonse, piatti e bicchieri – quelli che oggi chiamiamo props – sistemati con cura per dare profondità alla scena. Non è forse questo che cerchiamo di far emergere, a distanza di secoli, nelle foto che pubblichiamo nei nostri feed o nelle stories?

Il cibo dà piacere: dalla sua preparazione all’impiattamento, fino al consumo. Ma quando lo “consumiamo” online, questo piacere raggiunge il proprio apice: la visione luculliana di un piatto ci porta a cercare nuovi contenuti correlati, come in un infinito susseguirsi di cause ed effetti, tanto che il piacere che nasce da questa continua esposizione al cibo assume, in alcuni casi, una connotazione pornografica.

Questo fattore, ad esempio, ha dato origine al fenomeno del mukbang. Nato in Corea del Sud, il mukbang altro non è che una trasmissione online durante la quale una persona ingurgita, davanti a una telecamera, grandi quantità di cibo mentre interagisce con il pubblico. C’è chi trae piacere erotico nel sentire e vedere una persona masticare, risucchiare e deglutire, e chi su alcune piattaforme è disposto a pagare per assistere a questi eating show.

Tutto ciò ha una conseguenza: il tempo passato davanti a uno schermo, che sia quello del telefono, del computer o della tv, a spulciare contenuti legati al cibo è in costante crescita a discapito di quello passato in cucina. Molte persone provano una maggiore soddisfazione nel vedere gli altri cucinare, ad esempio guardando vlog o ricette su YouTube, piuttosto che sperimentare e cimentarsi nella preparazione di nuovi piatti. Questa tendenza sembra andare nella direzione opposta rispetto a quanto accadeva almeno una decina di anni fa: chi all’epoca navigava sul web alla ricerca di spunti culinari, lo faceva soprattutto per una funzione pratica – imparare a cucinare – e non per impiegare il proprio tempo libero in un’attività ludica.

D’altro canto, l’importanza che il cibo riveste nella nostra vita online ha portato, da un lato, alla nascita di nuove figure professionali, come food blogger e influencer, mentre dall’altro si è rivelato essere un’importante vetrina per ristoranti, bar e strutture ricettive. Dai ristoranti stellati, venerati come dei templi in cui ogni alimento trova la massima espressione, alle trattorie di paese, che servono piatti dall’animo più rustico, ogni locale è parte di una vastissima rete i cui nodi sono costituiti da foto, video e recensioni. Tutti noi, infatti, prima di prenotare un tavolo diamo una veloce occhiata al profilo Instagram di un ristorante, per vedere come sono presentate le pietanze e come appare il locale, al sito web, per consultare in anticipo il menù, e alle opinioni che gli altri clienti hanno lasciato.

Al contempo, all’interno di questa rete trovano posto anche i piccoli produttori che, grazie ai mezzi digitali, possono far conoscere i processi lavorativi che stanno dietro i loro prodotti e instaurare un rapporto diretto con i potenziali acquirenti.

Non si tratta di decidere, quindi, se questo rapporto simbiotico sia moralmente giusto oppure no, ma di delineare alcuni degli scenari a cui esso dà vita, magari provando a ragionare su quelli che verranno ed esplorare alcuni dei modi in cui il mondo digitale si riflette e permea nella cultura gastronomica.

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