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Viaggio nella storia del gin, dal genever al Gin Tonic

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La storia del gin, il rinomato distillato a base di mosto di cereali aromatizzato con bacche di ginepro, è legata ad antiche credenze mediche, alle guerre che imperversarono in Europa durante l’Età moderna, al puro piacere dell’alcol e alle conquiste coloniali.

La bevanda più simile all’odierno gin di cui abbiamo notizie è un infuso a base di alcol e bacche di ginepro di cui il botanico greco Dioscoride parla nel suo Sulle erbe mediche, opera del I secolo. Ma il primo antenato del gin ha in realtà origini italiane, che sono da rintracciare nella Scuola medica salernitana, fondata nel IX secolo a Salerno. Tra le sue sale, medici e studiosi perfezionarono l’uso dell’alambicco iniziando a preparare distillati dall’elevata gradazione alcolica, tra i quali ne compariva uno a base di vino e ginepro, adoperato a scopo medico.

Ed è proprio nel corso del Medioevo che il gin, se così lo vogliamo chiamare, iniziò a diffondersi in tutto il continente. Nei Paesi Bassi del XIII secolo, come riportato da alcuni trattati e volumi enciclopedici dell’epoca, i medici somministravano ai pazienti un decotto che, come quello salernitano, era composto da vino e bacche di ginepro, queste ultime aggiunte per migliorarne il sapore amaro. Utile contro la gotta e la dispepsia, tale decotto era conosciuto come genever, nome che derivava da jeneverbes, “ginepro” in nederlandese.

Perché il genever, da intendersi come bevanda alcolica e non più come medicina, abbia successo bisogna attendere altri tre secoli e, in particolare, lo scoppio della Guerra dei trent’anni, combattuta tra il 1618 e il 1648. Fu in questo contesto che le truppe inglesi riconobbero agli alleati fiamminghi il cosiddetto Dutch courage: il coraggio degli olandesi era dovuto al fatto che questi erano soliti farsi un goccetto di genever prima di ogni battaglia. L’usanza piacque a tal punto che i soldati inglesi non solo la adattarono, ma portarono il distillato in patria e iniziarono a produrlo da sé. Per questioni linguistiche il nome venne storpiato e, in Inghilterra, il genever cominciò a essere chiamato ginnever.

La Guerra dei trent’anni e le successive vicende storiche modificarono gli assetti politici dell’Europa e, quasi in modo accidentale, anche il destino del ginnever. Nel 1689 Guglielmo III d’Orange venne incoronato re di Inghilterra, Scozia e Irlanda; il sovrano, di origine fiamminga, era un amante del genever e durante il suo regno il liquore, una cui pinta era più economica rispetto a una di birra, divenne la bevanda più consumata. Salito al trono, aumentò le tasse di importazione di cognac e vini francesi e, al contempo, diminuì quelle relative alla produzione di liquori; inoltre le eccedenze di cereali vennero destinate alla produzione del distillato aromatizzato con i frutti della conifera.

Nel corso del 1700 il ginnever divenne così popolare che almeno un quarto delle famiglie londinesi lo produceva, spesso adoperando cereali di scarsa qualità e addizionandovi sostanze nocive come la trementina. Il primo ventennio del XVIII secolo è conosciuto, infatti, come The Gin Craze, un’epoca il cui il consumo di ginnever era fuori controllo e le sue conseguenze furono devastanti per la popolazione, con un aumento dei tassi di criminalità e di mortalità. Ed è in questo contesto che il ginnever iniziò a essere chiamato gin: la prima testimonianza scritta del termine si trova ne La favola delle api: ovvero vizi privati, pubbliche virtù, un poemetto satirico di Bernard de Mandeville che criticava la società dell’epoca.

Il governo non tardò a intervenire. Tra il 1729 e il 1751 venne emanata una serie di leggi, le Gin Acts, atte a limitare la produzione e il consumo di gin. Proprio nel 1751 l’incisore William Hogarth pubblicò un dittico di acqueforti (riprodotto qui sotto), Beer Street e Gin Lane, in cui erano raffigurati gli effetti catastrofici del gin e quelli benefici della birra. La scena di Gin Lane, ricca di personaggi, è famosa per la figura centrale: una donna ubriaca seduta su una scalinata che, con noncuranza, lascia cadere il proprio figlio.

Questo breve excursus sulla storia del gin non può essere completo senza menzionare la nascita del più famoso cocktail realizzato con questo distillato, il gin tonic. Siamo in piena epoca coloniale e i coloni britannici che frequentavano zone infestate dalla malaria adoperavano il chinino come prevenzione e rimedio contro la malattia. Essendo però amaro, il chinino veniva diluito con acqua e zucchero, e all’intruglio ottenuto si aggiungevano del gin, il quale nelle stive delle navi non mancava mai, che rendeva il tutto più appetibile e del limone, per prevenire lo scorbuto. Nel tardo Ottocento, la soluzione di acqua e zucchero venne sostituita dall’acqua tonica, in particolare dall’Indian Tonic Water della Schweppes. Ed è così che, con un intento medico, è stato inventato il Gin Tonic.

Senza libri non posso sopravvivere, ma nemmeno senza il buon cibo. Dopo un master in Editoria sono approdato nel mondo della comunicazione, in particolare nel settore food. Amante di tutto quello che proviene dall’Oriente e di fotografia, trascorro il tempo libero occupandomi delle mie piante e colleziono fototessere. E poi impazzisco per l’odore dei fiammiferi appena spenti.

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Hobby farmer: il ritorno alla terra tra passione, sostenibilità e autoproduzione

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Negli ultimi anni, l’interesse degli italiani per l’agricoltura amatoriale, o “hobby farming“, ha registrato una crescita significativa. Secondo un sondaggio condotto dal mensile “Vita in Campagna”, il 93% degli intervistati si dedica alla produzione artigianale di alimenti come marmellate, conserve e pesto. Di questi, il 64% lo fa principalmente per ottenere prodotti di qualità superiore rispetto a quelli disponibili nei supermercati. Inoltre, l’86% coltiva personalmente la frutta e la verdura utilizzata, evidenziando una tendenza crescente rispetto al 2020.

L’hobby farming, ovvero la coltivazione della terra e l’allevamento di animali su piccola scala per passione anziché per profitto, offre numerosi benefici, sia personali che ambientali. Ecco i principali vantaggi:

Benessere fisico e mentale
– Il lavoro all’aria aperta favorisce l’attività fisica, riducendo il rischio di malattie cardiovascolari e migliorando la forma fisica.
– Il contatto con la natura aiuta a ridurre lo stress e l’ansia, migliorando il benessere psicologico.
– Coltivare ortaggi e frutta stimola la gratificazione personale, riducendo il senso di frustrazione e migliorando l’umore.

Qualità dell’alimentazione
– L’autoproduzione di ortaggi, frutta, uova e altri alimenti permette di consumare prodotti più freschi, privi di pesticidi e conservanti chimici.
– Favorisce una dieta più equilibrata e sana, con un maggiore apporto di vitamine e minerali.

Sostenibilità ambientale
– La pratica dell’agricoltura biologica e l’uso di tecniche a basso impatto ambientale riducono l’inquinamento del suolo e delle acque.
– L’autoproduzione aiuta a ridurre gli sprechi alimentari e il consumo di plastica legato agli imballaggi industriali.
– L’hobby farming può contribuire alla biodiversità, favorendo la coltivazione di varietà autoctone e la presenza di insetti impollinatori.

Risparmio economico
– Sebbene non sostituisca completamente gli acquisti al supermercato, l’hobby farming consente di ridurre le spese per frutta, verdura e altri prodotti.
– Con una gestione oculata delle risorse (ad esempio, il compostaggio e l’uso di acqua piovana), i costi si riducono ulteriormente.

Conoscenza e trasmissione della cultura agricola
– Permette di apprendere competenze legate alla coltivazione, all’allevamento e alla conservazione degli alimenti.
– Favorisce la trasmissione di tradizioni e tecniche agricole alle nuove generazioni.
– Può trasformarsi in un’attività educativa per i bambini, avvicinandoli alla natura e insegnando loro l’importanza della sostenibilità.

Possibilità di piccole entrate extra
– Se l’attività cresce, è possibile vendere prodotti artigianali come miele, marmellate, ortaggi o uova, generando un piccolo reddito aggiuntivo.
– In alcune zone, l’hobby farming si lega anche al turismo rurale e alle esperienze didattiche (agriturismi, laboratori per scuole, ecc.).

Socialità e senso di comunità
– Gli hobby farmer spesso si uniscono in reti locali o gruppi di scambio, condividendo sementi, consigli e prodotti.
– Favorisce la nascita di orti urbani e comunitari, rafforzando il legame tra i membri della comunità.

Grazie a questi vantaggi, l’hobby farming non è solo una tendenza in crescita, ma una pratica che migliora la qualità della vita e aiuta a costruire un futuro più sostenibile. Un’analisi di Nomisma, in collaborazione con “Vita in Campagna”, ha rilevato che gli hobby farmer italiani provengono da diverse categorie professionali, tra cui impiegati, liberi professionisti, lavoratori autonomi, dipendenti pubblici, operai e pensionati. Le coltivazioni più comuni includono ortaggi (88,6%), frutta (65%), vite (34,3%) e olivo (32,3%). Spesso, queste attività sono accompagnate da processi di trasformazione come la produzione di confetture, conserve, vino e olio.

Questa crescente passione per l’agricoltura amatoriale riflette un desiderio diffuso di ritornare a uno stile di vita più sostenibile e in armonia con la natura, nonché la volontà di consumare alimenti più sani e genuini.

Per gli appassionati del settore, dal 14 al 16 marzo 2025 si terrà a Verona la 12ª edizione di “Vita in Campagna – La Fiera“. L’evento, ospitato presso Veronafiere, rappresenta un punto di incontro per tutti coloro che amano il verde, con spazi dedicati a orti, giardini e piccoli allevamenti. I visitatori potranno esplorare una vasta gamma di prodotti, attrezzature e partecipare a corsi pratici tenuti da esperti del settore. I settori merceologici presenti includono piante e fiori per abbellire gli spazi, orticoltura, animali da cortile e cosmesi naturale. La fiera promuove un approccio consapevole alla terra, favorendo la condivisione di conoscenze e l’innovazione nel rispetto dell’ambiente. È un’occasione imperdibile per chi desidera approfondire le proprie competenze nel campo dell’agricoltura amatoriale e scoprire le ultime novità del settore.

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Grande e piccolo schermo: i cocktail più celebri di film e serie tv

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Con l’avvento del sonoro e la nascita dello star system, grazie anche ai grandi divi hollywoodiani come Rodolfo Valentino e Buster Keaton, il cinema fin dagli anni Venti si è fatto promotore di nuovi stili di vita e tendenze che, soprattutto a partire dagli anni del boom economico, hanno iniziato a essere imitati da un pubblico sempre più attento a quanto appariva sul grande schermo. E con il passare dei decenni anche i telefilm e le serie TV si sono fatte veicoli di nuovi trend, che non riguardano solo la moda, la musica o oggetti rappresentanti uno status symbol specifico, ma anche i gusti in fatto di cibo e cocktail. Numerosi drink, proprio grazie alla cinematografia, hanno conosciuto un successo planetario.

Il più celebre è il Vodka Martini, rigorosamente agitato e non mescolato, ordinato da James Bond, l’elegante agente segreto inglese. James Bond nacque nel 1953 dalla penna di Ian Fleming, anno in cui venne pubblicato Casino Royale, il primo romanzo della fortunata saga. Sul grande schermo, invece, il successo dell’agente 007 risale al 1962, anno in cui Sean Connery prestò per la prima volta il proprio volto al personaggio. Ed è in Agente 007 – Licenza di uccidere che l’agente beve il suo primo Vodka Martini, a base di vodka e vermouth.

La vodka è anche l’ingrediente base del Bloody Mary, cocktail onnipresente ne I Tenenbaum di Wes Anderson. Richie, terzo figlio di un’eccentrica famiglia newyorkese, è solito bere il cocktail speziato al succo di pomodoro per affogare le proprie pene d’amore. O forse per sopprimerle come fece la regina Maria I Tudor, soprannominata Maria la sanguinaria, con i protestanti inglesi, a cui una leggenda attribuisce il nome di questo cocktail.

E il distillato tipico dell’Europa orientale scorreva a fiumi in alcuni celebri telefilm andati in onda tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila. Non si può non citare il Cosmopolitan, il cocktail rosa shocking che Carrie, Samantha, Charlotte e Miranda, le quattro protagoniste di Sex and the City, bevevano nei locali più alla moda di New York mentre attendevano l’arrivo dell’uomo perfetto; o l’Appletini, il drink con il liquore alla mela amato dal dottor J.D., personaggio iconico e narratore della sitcom Scrubs – Medici ai primi ferri ambientata nell’Ospedale Sacro Cuore.

Desperate Housewives è un delle serie TV americane più popolari di sempre che ha contribuito a rendere famoso uno dei cocktail più rinfrescanti ed estivi che ci sia, il Margarita. Susan, Lynette, Bree e Gabrielle sono quattro casalinghe che vivono nel sobborgo di Wisteria Lane, in cui, quotidianamente, si consumano drammi, tradimenti, incidenti domestici e omicidi che scombussolano la vita apparentemente tranquilla del quartiere. Ed ecco che il cocktail a base di tequila, quando le protagoniste devono risolvere una situazione spinosa o riappacificarsi, entra in scena: la ricca Gabrielle ne prepara sempre qualche caraffa da bere in compagnia delle vicine di casa.

Il gin, invece, è lo spirito alla base del Singapore Sling, cocktail di un rosso intenso creato attorno al 1915 dal barista Ngiam Tong Boon del Raffles Hotel di Singapore. Il cocktail, per la cui miscelazione serve circa una decina di ingredienti, è il simbolo di uno dei film più apprezzati dei tardi anni Novanta: Paura e delirio a Las Vegas. In una pellicola allucinogena fatta di continui eccessi, Raoul Duke, interpretato da Johnny Depp, ha un debole per il cocktail ideato nello stato del Sud-est asiatico – oltre che per svariate tipologie di droghe.

Un altro personaggio letterario, poi prestatosi al grande schermo come l’agente 007, è conosciuto per essere un rinomato bevitore e un vero amante di gin: Jay Gatsby. Il personaggio principale de Il grande Gatsby– romanzo del 1925 di Francis Scott Fitzgerald –, che nel 2013 è comparso nuovamente al cinema con il volto di Leonardo DiCaprio, può essere considerato l’icona dei ruggenti anni Venti e il Gin Rickey, il cocktail simbolo di quel decennio, è il drink preferito dall’uomo.

E come non citare, in conclusione, quei telefilm in cui il consumo di alcol e cocktail è uno dei tratti distintivi dei personaggi? E così è impossibile non pensare all’irriverente e sfacciata Karen Walker di Will & Grace con la sua coppa di Martini Dry in mano, o a Cassandra Bowden, L’assistente di volo amante della vodka, o ancora alle protagoniste di Mom, la buffa sitcom incentrata sulla vita di un gruppo di ex alcoliste.

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Non c’è cocktail senza garnish: come rendere impeccabile il proprio drink

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Come per i piatti in cucina, anche nel mondo della mixology i cocktail si bevono innanzitutto con gli occhi. Ogni drink, che sia ordinato al bancone di un bar o preparato a casa per allietare un dopocena con gli amici, deve essere realizzato a regola d’arte, non solo nella tecnica ma anche nella presentazione.
Dimenticate ombrellini di carta, cannucce di plastica e spiedini colmi di frutta che trasformano un cocktail in un mangia e bevi. Le decorazioni, dagli amanti del dizionario anglosassone spesso chiamate garnishes, non solo devono appagare la vista, ma anche essere funzionali in quanto componente irrinunciabile.

IL SOLE DEGLI AGRUMI

Limone, arancia, lime e pompelmo sono tra i frutti più adoperati come garnish ed estremamente versatili. Le bucce degli agrumi, ricche di oli essenziali, possono essere sfregate sul bordo del bicchiere oppure adagiate come topping affinché, attraverso una leggera infusione, possano conferire una nota lievemente acidula al cocktail. Per ricavare le zest è sufficiente adoperare uno zester, l’apposito utensile, un pelapatate o un coltellino, avendo cura di eliminare la parte bianca della buccia, tendenzialmente amara. Gli agrumi possono anche essere essiccati, cosicché gli zuccheri e le sostanze aromatiche in essi contenuti si concentrino. In questo caso basta ricavare delle fette sottili, magari con l’aiuto di una mandolina, disporle su una leccarda e farle disidratare dolcemente in forno per alcune ore a temperatura moderata girandole di tanto in tanto.

I TESORI DEL BOSCO

Piccoli, tondi e ricchi di gusto, i frutti di bosco sono una delle decorazioni più gettonate, complice anche il loro aspetto invitante. More di rovo e di gelso, mirtilli rossi e neri, lamponi, fragoline, ribes e uva spina, la scelta è pressoché infinita, ma per un ottimo cocktail bisogna adoperare quelli freschi, meglio ancora se di stagione. Con il loro sapore dolce e leggermente aspro, i frutti di bosco possono essere utilizzati interi o, come gli agrumi, essiccati. Tuttavia, l’essicazione li rende poco appetibili dal punto di vista estetico; per ovviare a ciò, basta ridurli in polvere. La polvere così ottenuta può essere cosparsa sul cocktail oppure adoperata per decorare il bordo del bicchiere, creando una crosta zuccherina dal colore brillante.

UN ORTAGGIO ASIATICO

Il cetriolo, pianta originare dell’Asia meridionale e orientale, negli ultimi anni è entrato di prepotenza nel mondo della mixology. Un esempio su tutti? Il Moscow Mule e l’ormai eterna diatriba sulla tanto contestata fettina di cetriolo. Fresco e croccante, e talvolta amarognolo, il cetriolo, con il suo sapore delicato, si sposa alla perfezione con cocktail dalla struttura semplice e dal colore neutro, come il Gin Fizz. La buccia deve essere sempre ben lavata – meglio ancora adoperare cetrioli da agricoltura biologica – e non va scartata per mantenere il contrasto di cromie tra il verde scuro della parte esterna e quello chiaro della polpa.

IL FRUTTO PRESIDENZIALE

Nel Martini di Karen Walker, protagonista della sitcom Will & Grace, non mancava mai una grossa oliva verde. E, difatti, le olive sono una delle garnish più adoperate nei cocktail dal gusto secco. Infilata in uno stecchino di legno e immersa nel cocktail, come nel caso del Dirty Martini, l’oliva conferisce uno sapore salino dato per lo più dalla salamoia in cui è conservata; inoltre deve essere succosa e con la polpa soda. A proposito di Dirty Martini: il cocktail è stato ideato dal presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosvelt che l’ha definito dirty, ovvero “sporco”, poiché la salamoia rendeva torbido il contenuto del bicchiere.

UN’AROMATICA MEDITERRANEA

Il rosmarino è una pianta originaria del Mediterraneo, molto usata in cucina per il suo sapore penetrante con sentori che ricordano l’eucalipto e la salvia. I rametti di rosmarino, caratterizzati da foglie simili ad aghi verde scuro, vengono oggigiorno impiegati come garnish per cocktail dal gusto intenso e persistente, soprattutto in abbinamento con il limone. Inoltre, per rendere ancora più accentuata la sua presenza, è possibile realizzare uno sciroppo di zucchero aromatizzato al rosmarino con cui, magari, confezionare un Gimlet da decorare con i delicati fiori lilla della pianta.

SEMPRE RINFRESCANTE

Piperita, artica, glaciale, variegata e cervina. Le varietà di menta sono moltissime e ognuna di esse ha un sapore e un aroma ben definitivo: ce ne sono alcune più fruttate, che ricordano la mela, l’ananas o la banana, altre sono più intese che, ad esempio, rimandano al cioccolato. Regina indiscussa dei cocktail estivi dai sentori rinfrescanti, questa erba aromatica è una delle più adoperate nell’arte della miscelazione, sia come sciroppo sia in foglie. Queste ultime, adagiate in cima al cocktail o immerse al suo interno, devono essere sapientemente dosate per evitare che il sapore erbaceo sia predominante.

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