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“Villa Sparkling Menù” edizione 2013: vince lo chef Enrico Bartolini

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Millesimati Villa Franciacorta e creatività in cucina. Questa è l’essenza del Villa Sparkling Menù, concorso giunto alla sua decima edizione, vinto quest’anno da Enrico Bartolini con “Patata soffice uovo e uova” in abbinamento al Villa Franciacorta Emozione Brut Millesimato 2009.

Sono stati cinque i piatti degustati nella finale di domenica 29 settembre nell’incantevole borgo Villa a Monticelli Brusati preparati da cinque grandi chef: Enrico Bartolini del Devero Ristorante (Cavenago Brianza –MB), Ennio Zanoletti dell’Hostaria Uva Rara (Monticelli Brusati –Bs), Enrico Braghese del Zì Rico (Palestrina –Rm), Gagan Nirh del Tabla (Lugano –Svizzera), e Teresa Buongiorno del Già Sotto l’Arco (Carovigno –Br).

06-PREPARAZIONE PATATA SOFFICE UOVO E UOVAUn concorso che ha come la filosofia quella di proporre un Metodo Classico a tutto pasto, abbinato alla cultura gastronomica del Belpaese, con ogni proposta degli chef frutto di un’attenta valutazione delle materie prime, della fantasia e della passione. La professionalità di ciascun finalista ha creato una collaborazione tra loro dando vita, adattandosi a cucine non familiari allestite per l’occasione, ad un vero e proprio team, dove ognuno contribuiva alla creazione della propria pietanza preoccupandosi anche della buona riuscita delle portate degli altri finalisti.

La premiazione del vincitore è stata anticipata da una menzione speciale assegnata agli “Spaghetti cacio e pepe con croccante guanciale”, abbinamento perfetto con Villa Franciacorta Rosè Brut Millesimato 2009, piatto proposto da Enrico Braghese del ristorante romano Vineria Zi’ Rico di Palestrina.

In occasione del decimo anniversario del concorso è stato inoltre presentato il volume “Villa Sparkling Menù 2002-2013 Una storia di Gusto gioia ed emozioni” che racconta, con ricette pensieri ed immagini, i dieci anni di storia durante i quali Villa ha saputo valorizzare prestigiosi chef che, con passione, hanno saputo creare originali combinazioni promuovendo profondi legami tra i menù proposti ed i Franciacorta Villa.

Siamo bravi, belli e buoni. O almeno siamo convinti di esserlo! Amiamo cucinare, mangiare, bere, viaggiare, fotografare, conoscere e, in generale, ci lasciamo attrarre da tutto quel che merita un approfondimento. Viviamo lasciandoci calamitare da tutto ciò che piace e ci impegniamo a raccontarlo nel migliore dei modi. Altre nostre grandi passioni: gli animali domestici, l'orticoltura, gli alimenti genuini e sani e l'attività fisica. Come puoi interagire con noi? Scrivici a redazione@zedmag.it

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Il rosa è di tendenza: i pink gin sono di moda e spopolano ovunque

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Se c’è una cosa che Instagram e, più in generale, i social network sanno fare bene è dettare nuove tendenze, in ogni ambito della vita: dagli unicorni sotto forma di tazza, lampada e torta ai cronut (che furono protagonisti di una puntata della sitcom 2 Broke Girls) a sfide di vario tipo come la cinnamon challenge e la ice bucket challenge. Neppure il mondo della miscelazione è riuscito a sfuggire alle mode lanciate dai social: a spopolare nell’ultimo periodo, merito del fatto di essere fortemente instagrammabile, è il pink gin.
Ma cos’è il pink gin, questo distillato di un amabile rosa protagonista di molti scatti? Scopriamolo assieme!

Il nostro viaggio inizia in Sud America, in Venezuela per la precisione. Il medico tedesco Johann Gottlieb Benjamin Siegert, che operava come chirurgo generale nell’esercito di Simón Bolívar, nel 1824 dopo alcuni anni di studi brevettò un medicinale per curare i disturbi gastrici e intestinali; miscelando erbe e piante aromatiche creò l’angostura bitter, che battezzò con il nome della città in cui risiedeva, Angostura per l’appunto (oggi Ciudad Bolívar).

Solo pochi anni più tardi, alle metà del secolo, l’angostura cominciò a essere presente sugli scaffali delle farmacie dei Caraibi, degli Stati Uniti e del Regno Unito. In quanto medicamento, i marinai della Royal Navy la adoperavano per combattere il mal di mare. Il sapore amaro, molto più persistente di quello dell’angostura odierna, rendeva difficile berla in purezza; per tale ragione i marinai iniziarono a mischiare il bitter con il gin, che nelle stive delle navi non mancava di certo. Nacque così un miscelato che per via del colore rosato venne chiamato Pink Gin.

Il cocktail che prevede solo l’uso di questi due ingredienti, sebbene vi sia chi lo allunghi con della soda o dell’acqua tonica e lo serva con una zest di limone, ben si differenzia dai pink gin che si trovano oggigiorno in commercio. I pink gin, da intendere come distillati, non hanno nulla a che fare con il drink che porta lo stesso nome, se non per il colore.

I pink gin che acquistiamo e che stanno spopolando sui social sono dei comuni gin che, dopo la distillazione, vengono infusi con botaniche che conferiscono il caratteristico color rosa, come fragole, lamponi, ribes rosso, rosa o rabarbaro, o a cui vengo addizionati coloranti naturali.

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La distillazione si fa arte: le tecniche di produzione del gin

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Partiamo da una semplice ma basilare definizione: il gin è una bevanda alcolica ottenuta per distillazione di un fermentato a base di cereali – o più di rado patate – in cui vengono messe in infusione delle botaniche, ovvero erbe, spezie, bacche, radici e piante.

La produzione del gin è disciplinata dal regolamento (UE) 2019/787 pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea il 17 aprile 2019. Secondo la legge, un gin distillato può essere definito tale solo se la presenza di coccole di ginepro, della specie Juniperus communis, è predominante rispetto agli altri prodotti vegetali impiegati e possiede un titolo alcolometrico volumico minimo di 37,5% vol.

La preparazione del gin ha inizio con la realizzazione della base alcolica fermentata. I cereali, per lo più frumento oppure orzo, vengono miscelati con acqua e lievito, scaldati lentamente e mescolati di continuo. La miscela viene fatta fermentare per un periodo che dura circa due settimane, arco di tempo fondamentale per lo sviluppo dell’etanolo. A fermentazione completata, la parte liquida viene separata da quella solida e posta all’interno degli alambicchi.

Ha così inizio la distillazione, un processo atto a purificare il liquido. Una volta riscaldata, la base, posta all’interno della caldaia, inizia a evaporare. I vapori incanalati nel collo scendono nella serpentina che li raffredda e li riporta allo stato liquido; sotto la serpentina si trova un recipiente che raccoglie il liquido condensato. Questa fase può essere ripetuta più volte a seconda del livello di purezza che il mastro distillatore desidera ottenere.
Il liquido ottenuto con la distillazione non è omogeneo. Il primo trentacinque per cento, chiamato testa, è un prodotto che contiene metanolo e acetone, sostanze tossiche, e per questa ragione è solitamente scartato. Il seguente trenta per cento, che costituisce il cuore, è la parte migliore. Mentre la coda, il trentacinque per cento del liquido restante, sebbene contenga alcune impurità può essere nuovamente distillato.

È proprio durante la distillazione che le botaniche vengono inserite affinché possano rilasciare i loro aromi. L’aroma delle botaniche può essere estratto con diverse tecniche: sospensione, macerazione e infusione. Nella prima le erbe e le spezie vengono poste in cui cestello forato situato alla base del collo dell’alambicco; i vapori entrando a contatto con esse ne assorbono le sostanze aromatiche. Le altre due tecniche simili tra loro, poiché entrambe prevedono l’immersione delle botaniche nel liquido, differiscono per la temperatura della base alcolica: se la macerazione è eseguita a freddo, nell’infusione la base viene scaldata a una temperatura compresa tra i quarantacinque e i cinquanta gradi.
Per la produzione di gin destinati al consumo di massa si impiega la tecnica del compound che consiste nella miscelazione di alcol e concentrato di aromi di gin oppure essenze artificiali di bacche di ginepro, erbe aromatiche e spezie.

Terminata la distillazione, il liquido è posto all’interno di tini e diluito con acqua al fine di ottenere la gradazione alcolica desiderata. Prima di essere imbottigliato, il gin viene filtrato per eliminare ogni impurità presente in sospensione.

Del gin esistono tre stili di produzione che corrispondono a esperienze sensoriali e organolettiche differenti.
Il London Dry è considerato lo stile più sofisticato e si è sviluppato circa alla metà dell’Ottocento nella capitale britannica quando i consumatori cominciarono a prediligere spiriti secchi. Ciò che contraddistingue questo stile è l’uso delle botaniche, che possono essere inserite soltanto durante la distillazione e devono essere completamente naturali. Difatti, è vietata per legge l’addizione di coloranti e sostanze aromatiche artificiali.

Il Plymouth Gin è, al contrario, l’unica denominazione esistente per il gin. Dal sapore più dolce rispetto al London Dry, questo distillato è prodotto solo a Plymouth, cittadina costiera del Devon, dalla distilleria Black Friars Distillery (Coates & Co Ltd).

Infine, il terzo stile è l’Old Tom. Diffuso fino alla nascita del London Dry, l’Old Tom, nato nell’Ottocento dall’esigenza di rendere più appetibile con l’addizione di miele i gin che erano prodotti in proprio, è un gin spiccatamente dolce per via dell’aggiunta di sciroppo di glucosio.

Negli ultimi tempi si sta diffondendo una nuova tendenza: i Navy Strenght Gin. Si tratta di gin dall’elevata gradazione alcolica, non inferiore ai 57% vol.

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Alla scoperta di ingredienti particolari: il chinino, la vera anima dell’acqua tonica

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Un Gin Tonic, come il suo nome suggerisce, non può essere considerato tale se nella sua miscelazione manca un componente fondamentale, l’acqua tonica. Una delle bibite gassate più consumate, l’acqua tonica ha una storia particolare che è legata all’ingrediente che la caratterizza, ovvero il chinino. Scopriamola!

Il chinino è un alcaloide – vale a dire una sostanza organica azotata – estratto dalla corteccia della china, conosciuto e adoperato già dalle civiltà precolombiane che abitavano Perù, Ecuador e Bolivia per le sue proprietà antimalariche e antifebbrili.
La china è una pianta arborea originaria delle Ande conosciuta anche con il nome di cinchona. Secondo la leggenda, questo nome deriva Ana de Osorio contessa di Chinchón, moglie del viceré del Perù Luis Jerónimo de Cabrera conte di Chinchón, che venne curata da una febbre malarica proprio con la corteccia di questo albero. Ma la storia, in realtà, è ben diversa: la contessa di Chinchón morì circa tre anni prima della nomina del marito alla carica di viceré, avvenuta nel 1629, il quale venne accompagnato nelle Americhe dalla seconda moglie Francisca Henriquez de Ribera.

Al di là di questa curiosa leggenda, il chinino è conosciuto in Europa fin dal 1600 grazie ai gesuiti spagnoli che poterono apprenderne le proprietà dalle popolazioni indigene dell’America Latina e divenne, in epoca coloniale, un prezioso alleato per curare la malaria – malattia parassitaria che fu presente in alcune aree dell’Europa fino all’inizio del XX secolo. Nel 1817 Pierre Joseph Pelletier e Joseph Bienaimé Caventou, due farmacisti francesi, isolarono per la prima volta il chinino; mentre nel 1854 l’esploratore e filologo scozzese Willian Balfour Baikie, durante una spedizione sul fiume Niger, fu il primo ad adoperare il chinino come mezzo di prevenzione contro la malaria anziché come sola cura: prima di quella data moltissimi europei contraevano la malattia in Africa Occidentale perdendo la vita.

Grazie a queste importanti scoperte in ambito medico-scientifico l’impero britannico incominciò a esportare semi e alberi di china dell’America Meridionale per creare delle piantagioni nelle sue colonie asiatiche, prime fra tutte l’India e l’isola di Giava in Indonesia, potendo così abbatterne i costi di importazione.
Il chinino, tuttavia, è caratterizzato da una spiccata amarezza che ne rende difficile l’assunzione, ragione per cui i coloni inglesi iniziarono a miscelarlo con una soluzione a base di acqua effervescente e zucchero, creando, inconsapevolmente, quello che si potrebbe considerare il primo predecessore dell’acqua tonica.

Dal 1831 Schweppes divenne la fornitrice ufficiale di acqua gassata della Corona britannica grazie all’ingegnosa idea che il gioielliere e orologiaio tedesco Johann Jacob Schweppe ebbe nel 1783 di sviluppare a livello industriale il processo di carbonatazione dell’acqua, ovviamente con scopi medici. Quest’acqua, caratterizzata da una spiccata effervescenza, dal 1798, proprio in una campagna pubblicitaria della Schweppes, iniziò a essere chiamata soda water.
La svolta, dal punto di vista commerciale, avvenne però nel 1858 quando Erasmus Bond, proprietario della Pitt & Co., brevettò nel borgo londinese di Islington la prima acqua tonica, classificata, forse per la ridotta quantità di chinino, come digestivo e tonico anziché come rimedio contro gli stati febbrili.

L’acqua tonica non conobbe all’inizio un grande successo, ma divenne popolare soprattutto tra i viaggiatori europei che nelle zone tropicali o subtropicali cercavano una bibita che li potesse rinfrescare. La prima testimonianza del suo utilizzo come componente di un cocktail risale al 1863 quando a Hong Kong era di moda miscelarla con il ginger brandy.
Sebbene i coloni, come abbiamo visto, per mitigare il gusto amaro del chinino lo miscelavano con acqua e zucchero, spesso la soluzione risultava ancora poco appetibile, per cui la allungavano con un bene che sulle navi non mancava mai, l’alcol: poco importava che fosse vino, gin, whisky o liquori locali. Tuttavia, bisogna aspettare il 1868 per sentir parlare per la prima volta di Gin Tonic: quell’anno sulle pagine dell’Oriental Sporting Magazine venne menzionato un cocktail a base di gin e acqua tonica che gli spettatori delle gare ippiche che si tenevano a Lucknow, capitale dello stato indiano dell’Uttar Pradesh, sorseggiavano mentre assistevano alle competizioni.

Al giorno d’oggi l’acqua tonica non può essere adoperata come medicinale per la cura della malaria – bisognerebbe berne molti litri per beneficiare degli effetti del chinino –, ma è una delle bevande essenziali nell’arte della mixology e, ovviamente, indispensabile per il Gin Tonic.

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