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Cristiano Tomei, lo chef “fortunato” de L’Imbuto di Lucca

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Cristiano Tomei è uno di quei personaggi che più lo conosci e più ti intriga. Al primo impatto potrebbe emergere il suo fare goliardico, rinvigorito dalla cadenza toscana che lo contraddistingue, e rimanere travolti, positivamente, da una grande energia.  Approfondendo la conoscenza si scoprono poi lati, umani e professionali, che lo rendono ancor più unico.

Tomei, classe 1974, è uno chef autodidatta che ha conquistato la sua prima Stella Michelin nel 2014. Si è fatto conoscere al grande pubblico anche grazie a diverse apparizioni o conduzioni televisive. Tra le passioni spicca quella del surf, attività che, da ragazzo, lo ha portato in giro per il mondo. Carlo Passera, sul magazine del congresso internazionale Identità Golose, lo definisce come colui che «Rappresenta una specie di modello (uno dei modelli) di quella che potrebbe – dovrebbe – essere la cucina creativa italiana del futuro: uno spettacolare connubio di territorio, tradizione e apertura al mondo, proposto in vesti anche semplici».

La domanda è un po’ marzulliana, ma ogni tanto fa bene cambiare gli schemi: chi è Cristiano Tomei per Cristiano Tomei?
Sono un ragazzo fortunato perché mi hanno regalato un sogno, come diceva Jovanotti in una delle sue prime canzoni. Lavoro, ma ho la fortuna di fare quello che più mi appassiona nella vita: ovvero cucinare. Per me questa professione è espressione della condivisione, intesa come un atto o un linguaggio totale. Dico sempre che la cucina non è masturbativa, ma scopativa, nel senso che bisogna condividere senza barriere. Questo è Cristiano Tomei, cioè un cuoco che dopo tanto tempo ai fornelli ha capito, circa sette anni fa, che bisogna condivide senza troppi filtri. Ho scelto di farlo in maniera ragionata, ma istintiva, con la gente che viene a mangiare da me. Questo aspetto sta diventando sempre più importante all’interno de L’Imbuto, così come a Venezia (lo chef è da qualche mese anche a capo delle cucine del Settimo Cielo Rooftop Restaurant, aperto al settimo piano dell’hotel Bauer Palazzo, ndr) così come in televisione.

L’Imbuto, il tuo ristorante, è nato nel 2002 a Viareggio, la tua città natale. Dal 2012 sei a Lucca, prima a Palazzo Boccella e ora, da un paio d’anni, a Palazzo Pfanner. Come stanno andando le cose?
L’Imbuto non si è praticamente quasi mai fermato: l’unico vero fermo è stato durante il primo mese del primo lockdown. Siamo stati dei pionieri proponendo delle cene contenute in speciali box che abbiamo spedito, con tanto di istruzioni, in tutta Italia. La gente ci vuole bene e ci ha seguito. Questa cosa ci ha reso tanto orgogliosi. L’Imbuto non è cambiato: ha saputo esasperare la sua anima e anche grazie a questo ci siamo specializzati sempre più. Il percorso che proponiamo prevede dei percorsi composti da cinque, sette o nove portate a sorpresa, ma teniamo sempre in considerazione le eventuali intolleranze o le scelte di ciascun commensale. L’Imbuto è un contenitore nel quale la gente entra ed esce felice. Un sorriso vale molto di più di qualunque altra cosa, di qualunque recensione. La gente ci vuole bene. Stiamo lavorando tanto e con ottimi risultati.

In TV ti abbiamo visto come giurato o conduttore in Pupi & Fornelli, Cuochi d’Italia, Kitchen Sound. Ma non sono passate inosservate le tue comparizioni a La prova del cuoco su Rai 1 o a MasterChef su Sky. Per non parlare del format I re della griglia. Che rapporto hai con questo mezzo di comunicazione?
Anche questo è un altro mestiere dove condivido quello che faccio: non mi metto su un piedistallo perché sono uno chef. Avere questo ruolo non significa essere la persona più intelligente e brava di questo mondo. Al contrario: cerco di confrontarmi e di rispettare gli altri dicendo come la penso. Ci sono delle cose che sono quelle e devono rimanere quelle, ma sono sempre e comunque pronto a cambiare idea se qualcuno mi giustifica la sua posizione.
Il rapporto con la televisione dura in effetti da un po’ di anni. E anche in questo caso confermo di essere fortunato. È stata ed è tutt’ora una grande opportunità. Io non riesco a dire le bugie: ho avuto la fortuna di imparare un nuovo mestiere. Ci si confronta, infatti, con una parte di sé che è diversa rispetto all’ordinario. Quindi la TV  mi ha insegnato a conoscermi meglio e a mettere da parte, sembra strano, un po’ di vanità. In TV bisogna anche ascoltare gli altri e questo è molto importante. Sono consapevole che quello che sto dicendo è un paradosso, ma ti rivolgi a tantissime persone e lo devi fare nel modo più naturale possibile. Certo, ci sono gli autori, i registi, c’è un costrutto dietro a tutto, ma quello che vince è la spontaneità. Quello che è venuto fuori da questa esperienza è che sono una persona che tendenzialmente non ha voglia di mettersi a discutere, che preferisce costruire piuttosto che distruggere. Quindi per me questo è stato un elemento di potenziamento. In ogni caso non posso nascondere il fatto che la TV è un mezzo che ancora funziona e funziona bene.

È risaputo che hai un rapporto speciale con le cotture alla brace e le cotture a legna. Quali sono le origini di questa passione e come è evoluta, sul piano pratico, nei tuoi piatti proposti oggi?
Io sono sempre stato molto legato al fuoco vivo. L’ho sempre usato, anche se in passato in minor quantità, ma unicamente per ragioni di spazio. Quando mi sono spostato a Palazzo Pfanner ho progettato una cucina dove metà delle cotture vengono completate sulla brace o sulla legna. Eredito questa cosa da mio nonno che era un contadino e da mio padre che, pur non essendo un cuoco, era un grande amante di queste cotture. Il relazionarsi con il fuoco rappresenta un valore aggiunto: un cuoco ha il dovere di confrontarsi con il calore vivo, di sfruttare anche quello che si disperde dalla legna, dalla brace. Si tratta di cotture ancestrali che abbiamo dentro ed è quindi un dovere mantenerle. È poi fondamentale sentire il profumo della griglia, del grasso che cola. E questa cosa non vale solo per la carne e il pesce, ma anche per le verdure. Le melanzane, ad esempio, dopo averle cotte a diretto contatto con il fuoco, si fanno sgonfiare, si svuotano togliendo la parte carbonizzata e dentro sono profumate, sanno di brace, legna, fumo e si mangiano con il cucchiaio. Oserei dire che il passaggio sulla brace è una finitura necessaria, un passaggio fondamentale.

Come vedi l’uso dei distillati in cucina e l’abbinamento tra un piatto e un cocktail?
Ho sempre usato i distillati. Il whisky torbato, ad esempio, lo uso con l’anatra: è un connubio naturale visto che l’anatra vive nella torba. Uso anche, sempre nelle cotture, il vermouth, la vodka e il gin. Mi piacciono perché trasmettono delle note aromatiche interessanti che ben si sposano con quelle rilasciate dalle erbe selvatiche (attenzione, non quelle confezionate) che io e la mia brigata andiamo a raccogliere. Per esempio: il ginepro coccolone che cresce sulle dune della mia città di origine (Viareggio) è straordinario e con il gin crea un legame unico.
Per quanto riguarda gli abbinamenti piatto-cocktail: sì, ci credo. Secondo me non devono però essere forzati. Alcuni clienti ce li chiedono, anche se questi abbinamenti sono sicuramente qualcosa che appartiene più al mondo anglosassone. In Italia siamo ancora abituati al vino, però è innegabile che certi piatti possano trovare la massima espressione se gustati con un buon cocktail.

Giornalista dal 2000, da sempre vocato al settore food&beverage. Da grande avrei dovuto fare l'architetto, ma la passione per la comunicazione ha preso il sopravvento: ho infatti maturato esperienze nel settore del marketing operando nelle vesti di senior account in diverse agenzie di comunicazione. Oggi sono consulente aziendale nelle vesti di PR e addetto stampa. Sono appassionato di cucina, fotografia, giardinaggio, faidate e di fitness. Tra i progetti extralavorativi a breve termine: una casetta in montagna con tanto verde attorno.

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Autunno in Carinzia: festival ed eventi per celebrare l’arrivo della stagione

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La Carinzia, regione meridionale dell’Austria, è il territorio dove la cultura austriaca incontra quella slovena e quella italiana. In questo luogo da sogno, tra montagne, boschi e laghi, spiccano per la loro qualità specialità enogastronomiche uniche, protagoniste di eventi imperdibili.

La Carinzia, infatti, vanta il primato di essere stata la prima meta al mondo a meritare l’ambito riconoscimento di destinazione Slow Food Travel, dove è possibile scoprire e gustare il meglio della cucina d’oltralpe.

L’arrivo dell’autunno è qui celebrato con festival e manifestazioni che mettono al centro del proprio programma le eccellenze gastronomiche di questa terra.

Festa del pane

Nella valle Lesachtal, dal 31 agosto al 1° settembre, la Festa del pane fatto in casa è un vero e proprio tuffo nel passato. L’intera zona si mobilita per contribuire all’organizzazione degli eventi, che includono spettacoli musicali e workshop dedicati alla preparazione del pane secondo la tradizione.

Durante il festival, il pane è cotto al momento e tutti i partecipanti hanno l’opportunità di portare a casa un sacchetto di pane fresco e fragrante.

Foto di Arnold Poeschl.

Le Giornate della cucina Alpe-Adria

Dal 6 al 22 settembre si terranno le Giornate della cucina Alpe-Adria, che, per l’edizione 2024, offriranno ai partecipanti quattro diversi tour tematici: “Dal fornaio all’azienda vinicola”, “Tra le città dei draghi e l’entroterra sloveno”, “Alla scoperta dei sapori friulani nei dintorni di Udine” e lo “Slow Food Tour”. Questi itinerari guideranno i visitatori alla scoperta di produttori d’eccellenza e alimenti straordinari, attraversando Carinzia, Slovenia e Italia.

Le Giornate della cucina Alpe-Adria offriranno la possibilità di incontrare ottanta dei migliori produttori del territorio direttamente nella città rinascimentale di Klagenfurt. Nel centro storico, i visitatori troveranno una selezione di produttori di alimenti provenienti da Carinzia, Slovenia, Istria, Friuli-Venezia Giulia e Veneto.

KunstSinn

Dal 6 al 29 settembre a Neuhaus e nella Carinzia Meridionale avranno luogo una serie di appuntamenti che coniugano la coltivazione del grano saraceno e il mondo dell’arte e della musica. Il 28 settembre, ad esempio, si terrà una serata di esperienze uniche per tutti i sensi con il menu gourmet di quattro portate e il concerto del trio Keischn Kunterbunt.

Foto di Rossmann.

Notti gastronomiche a Bad Kleinkirchheim

Dalla metà di settembre alla metà di ottobre, ogni venerdì e sabato, nel comune di Bad Kleinkirchheim si terranno le notti gastronomiche, un viaggio culinario all’insegna del gusto, per immergersi nella cucina regionale della Carinzia.

Le notti gastronomiche nascono per rappresentare il legame con il territorio e per promuovere la preziosa collaborazione tra i produttori carinziani e i cuochi di Bad Kleinkirchheim.

Di sera, le trattorie e i ristoranti che aderiscono all’iniziativa proporranno prelibati menù di più portate. I piatti saranno preparati esclusivamente con prodotti locali.

Foto di UnterwirtHuettn.

Tavole intorno al lago Millstätter See

Fino al 19 ottobre, i paesaggi che circondano il lago Millstätter See si trasformano in punti di ristoro culinari unici.

L’obiettivo delle Tavole intorno al lago Millstätter See è quello di far assaporare la tradizione culinaria locale immersi in un luogo suggestivo. Le aziende della zona presentano la loro cucina, che si distingue per l’uso di erbe aromatiche, verdure selvatiche, pesce fresco e diverse prelibatezze regionali.

Ogni settimana, le tavole imbandite (ognuna con un tema unico) mettono in mostra la varietà e la ricchezza dell’offerta culinaria della Carinzia.

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Paese che vai e street food che trovi: il meglio nel mondo e in Italia

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Nell’ultimo decennio, quella per il cibo di strada, il cosiddetto street food, è diventata una vera e propria moda. I festival dedicati, di stagione in stagione, aumentano nel numero e sempre di più sembrano essere gli imprenditori che mostrano interesse nell’acquistare un ristorante su ruote e far conoscere i loro piatti in tutto il Paese e, se possibile, anche al di fuori dei confini. Da un lato, se per molti questa tendenza rappresenta una novità, un modo per scoprire piatti inusuali, magari esotici e lontani dalla quotidianità, dall’altro, lo street food gode di una storia millenaria che da sempre ha accompagnato le più grandi civiltà del passato.

Già nell’antica Grecia, per strada, si vendevano pesciolini fritti e nella Cina imperiale i nobili erano soliti spedire i propri servitori ad acquistare sfiziosi manicaretti dagli ambulanti agli angoli dei vicoli per gustare del cibo diverso da quello che veniva preparato nelle loro dimore. Ma fu nella Roma antica che il cibo di strada divenne una vera e propria istituzione: perlopiù zuppe di legumi e pane erano serviti nelle tabernae, delle botteghe dotate di un bancone di pietra con affaccio sulla strada, o in bancarelle smontabili che i lixae, i venditori ambulanti, allestivano nei pressi dei luoghi sacri.

Una cosa è certa: nel corso della storia, l’aumento del consumo di cibo di strada è stato conseguenza dello sviluppo urbanistico. La possibilità di poter pasteggiare fuori casa costituiva per i molti abitanti dei centri urbani, che non disponevano di cucine o forni nei loro alloggi, l’unico sostentamento, soprattutto se questi appartenevano alle fasce più povere della società. Si pensi che ancora oggi a Bangkok il quaranta per cento della popolazione consuma quotidianamente street food, mentre a Mumbai si conta mezzo milione di venditori ambulanti di cibo.

Ogni nazione, così come ogni singola città, possiede un cibo di strada iconico, unico per preparazione e storia: dal pani puri indiano, una specie di frittella cava che viene riempita con una salsa speziata dalla consistenza acquosa o con patate, all’hot dog newyorkese grondante senape ai churros spagnoli da intingere nel cioccolato fuso.

Ciò che valica ogni confine geopolitico e accomuna lo street food di ogni Paese è la cottura, spesso espressa, di pochi ingredienti che combinati tra loro danno vita a succulenti manicaretti da mangiare con le mani. Ogni senso è coinvolto in questa esperienza gastronomica, dove l’ambiente cittadino ne diventa il palcoscenico, andando a colmare quello spazio esistente tra il pasto servito al ristorante e quello consumato nella cucina di casa.

Negli ultimi anni, da quando il fenomeno dello street food si è affermato come tendenza, il cibo di strada è stato più volte equiparato al cibo spazzatura. Tuttavia, da questo si differenzia per l’impiego di materie prime selezionate che vengono lavorate di fronte al cliente, il quale prende parte come spettatore al processo culinario in atto; a differenza di quanto accade nelle cucine delle grandi catene di fast food dove i prodotti semilavorati vengono preparati lontano dagli occhi del consumatore.

L’Italia, per quanto riguarda il cibo di strada, può competere con quelle nazioni che hanno fatto di questa tipologia di ristorazione uno degli elementi cardine della loro cultura. Il Belpaese offre una varietà di street food che sa soddisfare ogni palato.

A Venezia è possibile assaggiare il tipico scartosso de pesse, un cono di carta paglia ricco di pesce fritto e verdure: calamari, gamberi, sarde e schie accompagnati, quando è stagione, dalle castraure, ovvero i germogli apicali dei carciofi, e da polenta arrostita.

Simile nella forma ma più ricco nel contenuto è il cuoppo napoletano, una cornucopia del miglior fritto partenopeo: crocchè di patate, palle di riso, mozzarelle in carrozza, fiori di zucca ripieni e frittatine di pasta.

E così le frattaglie, emblema della cucina povera, sono un ingrediente tipico di molti cibi di strada. A Firenze ad andare per la maggiore è il panino con il lampredotto; il lampredotto altro non è che l’abomaso, uno dei quattro stomaci dei bovini, cotto in brodo vegetale e irrorato di salsa verde. Mentre a Palermo è possibile addentare il pani câ meusa, un panino farcito con un misto di frattaglie, tra cui fegato, trachea e milza (da qui il nome) di viletto condito con limone o una grattugiata di ricotta salata.

Come non citare, in conclusione, la mitica piadina? Compagna di mangiate notturne all’uscita delle discoteche della riviera romagnola, la versione tradizionale la vuole farcita con squacquerone, rucola e prosciutto crudo.

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Scatta, mangia e condividi: come il mondo dei social ha cambiato la cucina

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#foodporn. #foodie. #yummy. #foodgasm. Scorrendo la home di Instagram quante volte ci siamo imbattuti in questi hashtag e altri simili sotto a foto o reel di ricette, piatti stellati o legati alla cucina di tutti i giorni?

Sul web la cucina ha iniziato a far parlare di sé grazie all’avvento, all’inizio degli anni Duemila, dei primi blog e di YouTube, ma è merito dei social se negli ultimi dieci anni almeno è diventata uno degli argomenti più discussi.

I nostri smartphone ci permettono di connetterci con il mondo e di condividere, in tempo reale, tutto quello che facciamo. Sfera privata e sfera pubblica sono interconnesse fra loro, sfociano l’una nell’altra: il desiderio di far sapere a chi ci segue dove siamo, con chi e cosa stiamo facendo e la curiosità data dallo spiare le vite altrui vanno di pari passo con il senso di appagamento che riceviamo da questa condivisione. E il cibo non sfugge a questa legge.

È così che, attraverso Instagram, possiamo conoscere i gusti dei nostri follower o sapere qual è il loro ristorante preferito. E sotto la lente della fotocamera il cibo che fotografiamo o riprendiamo deve risultare tanto bello quanto buono perché, mai come ai giorni nostri, il detto “si mangia prima con gli occhi” ha valenza universale.

L’estetismo in cucina, tuttavia, non è di certo una novità del XI secolo e del mondo digitale. Pensiamo alle nature morte raffigurate nei dipinti dei pittori olandesi e fiamminghi del XVI e XVII secolo. Natura morta con formaggi, mandorle e krakelingen di Clara Peeters o Natura morta con pasticcio di pavone di Pieter Claesz sono due ottimi esempi: pietanze decorate secondo le mode dell’epoca e disposte con cura su tovaglie intonse, piatti e bicchieri – quelli che oggi chiamiamo props – sistemati con cura per dare profondità alla scena. Non è forse questo che cerchiamo di far emergere, a distanza di secoli, nelle foto che pubblichiamo nei nostri feed o nelle stories?

Il cibo dà piacere: dalla sua preparazione all’impiattamento, fino al consumo. Ma quando lo “consumiamo” online, questo piacere raggiunge il proprio apice: la visione luculliana di un piatto ci porta a cercare nuovi contenuti correlati, come in un infinito susseguirsi di cause ed effetti, tanto che il piacere che nasce da questa continua esposizione al cibo assume, in alcuni casi, una connotazione pornografica.

Questo fattore, ad esempio, ha dato origine al fenomeno del mukbang. Nato in Corea del Sud, il mukbang altro non è che una trasmissione online durante la quale una persona ingurgita, davanti a una telecamera, grandi quantità di cibo mentre interagisce con il pubblico. C’è chi trae piacere erotico nel sentire e vedere una persona masticare, risucchiare e deglutire, e chi su alcune piattaforme è disposto a pagare per assistere a questi eating show.

Tutto ciò ha una conseguenza: il tempo passato davanti a uno schermo, che sia quello del telefono, del computer o della tv, a spulciare contenuti legati al cibo è in costante crescita a discapito di quello passato in cucina. Molte persone provano una maggiore soddisfazione nel vedere gli altri cucinare, ad esempio guardando vlog o ricette su YouTube, piuttosto che sperimentare e cimentarsi nella preparazione di nuovi piatti. Questa tendenza sembra andare nella direzione opposta rispetto a quanto accadeva almeno una decina di anni fa: chi all’epoca navigava sul web alla ricerca di spunti culinari, lo faceva soprattutto per una funzione pratica – imparare a cucinare – e non per impiegare il proprio tempo libero in un’attività ludica.

D’altro canto, l’importanza che il cibo riveste nella nostra vita online ha portato, da un lato, alla nascita di nuove figure professionali, come food blogger e influencer, mentre dall’altro si è rivelato essere un’importante vetrina per ristoranti, bar e strutture ricettive. Dai ristoranti stellati, venerati come dei templi in cui ogni alimento trova la massima espressione, alle trattorie di paese, che servono piatti dall’animo più rustico, ogni locale è parte di una vastissima rete i cui nodi sono costituiti da foto, video e recensioni. Tutti noi, infatti, prima di prenotare un tavolo diamo una veloce occhiata al profilo Instagram di un ristorante, per vedere come sono presentate le pietanze e come appare il locale, al sito web, per consultare in anticipo il menù, e alle opinioni che gli altri clienti hanno lasciato.

Al contempo, all’interno di questa rete trovano posto anche i piccoli produttori che, grazie ai mezzi digitali, possono far conoscere i processi lavorativi che stanno dietro i loro prodotti e instaurare un rapporto diretto con i potenziali acquirenti.

Non si tratta di decidere, quindi, se questo rapporto simbiotico sia moralmente giusto oppure no, ma di delineare alcuni degli scenari a cui esso dà vita, magari provando a ragionare su quelli che verranno ed esplorare alcuni dei modi in cui il mondo digitale si riflette e permea nella cultura gastronomica.

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