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Un giorno in distilleria per creare la nostra prima acquavite d’uva

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A volte, anzi quasi sempre, si mangia o si beve qualcosa senza sapere come è stato prodotto, senza sapere la storia che c’è dietro e come un elemento primario venga lavorato per ottenere un prodotto finito. Per esempio, noi ci siamo chiesti: ma come si fa la grappa e l’acquavite d’uva? Quindi, per colmare la nostra lacuna, siamo andati… a distillare.

Ospitati da Bonaventura Maschio, azienda trevigiana leader mondiale nel settore, siamo stati accolti da un intenso profumo di frutta, un aroma dolce, zuccherino ma allo stesso tempo intenso, che riempiva l’aria circostante la distilleria. Subito ci è stata spiegata la differenza tra grappa e acquavite d’uva, due prodotti differenti che provengono da materie prime diverse e lavorati con tecniche diverse.

La grappa, infatti viene ricavata dalle vinacce, ovvero il residuo della spremitura dell’uva, che viene fatto fermentare e poi distillato in alambicchi a vapore diretto, per estrarre la parte alcolica da un elemento che si presenta secco. L’acquavite d’uva, invece, proviene dall’uva appena raccolta, o meglio dal succo fermentato che contiene però anche le vinacce stesse. In questo caso, la distillazione è a bagnomaria, e viene fatta in particolari alambicchi sottovuoto che facilitano l’estrazione della parte alcolica senza perdere però i profumi tipici del mosto.

I padroni di casa, Anna e Andrea Maschio, ci hanno spiegato passo dopo passo, anzi ci hanno proprio coinvolto nel processo di distillazione, svelandoci alcuni importanti segreti di quella che, senza sbagliare, può essere considerata un’arte.

Di seguito, il reportage fotografico della giornata.

 

Ho intrapreso la via del giornalismo nel 2004 e, grazie alle tante e diverse esperienze in uffici stampa, piccoli e grandi quotidiani locali, radio e "produttori" di contenuti multimediali, ho maturato una conoscenza a 360° del mondo dei media e della comunicazione. Le mie passioni sono l'attività fisica, la buona cucina e, soprattutto, la fotografia, con la quale mi piace mischiare la tradizione un po' vintage della pellicola con l'innovazione e la modernità del digitale. Il mio obiettivo? Trasmettere emozioni attraverso la mia comunicazione.

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Alla scoperta di ingredienti particolari: il chinino, la vera anima dell’acqua tonica

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Un Gin Tonic, come il suo nome suggerisce, non può essere considerato tale se nella sua miscelazione manca un componente fondamentale, l’acqua tonica. Una delle bibite gassate più consumate, l’acqua tonica ha una storia particolare che è legata all’ingrediente che la caratterizza, ovvero il chinino. Scopriamola!

Il chinino è un alcaloide – vale a dire una sostanza organica azotata – estratto dalla corteccia della china, conosciuto e adoperato già dalle civiltà precolombiane che abitavano Perù, Ecuador e Bolivia per le sue proprietà antimalariche e antifebbrili.
La china è una pianta arborea originaria delle Ande conosciuta anche con il nome di cinchona. Secondo la leggenda, questo nome deriva Ana de Osorio contessa di Chinchón, moglie del viceré del Perù Luis Jerónimo de Cabrera conte di Chinchón, che venne curata da una febbre malarica proprio con la corteccia di questo albero. Ma la storia, in realtà, è ben diversa: la contessa di Chinchón morì circa tre anni prima della nomina del marito alla carica di viceré, avvenuta nel 1629, il quale venne accompagnato nelle Americhe dalla seconda moglie Francisca Henriquez de Ribera.

Al di là di questa curiosa leggenda, il chinino è conosciuto in Europa fin dal 1600 grazie ai gesuiti spagnoli che poterono apprenderne le proprietà dalle popolazioni indigene dell’America Latina e divenne, in epoca coloniale, un prezioso alleato per curare la malaria – malattia parassitaria che fu presente in alcune aree dell’Europa fino all’inizio del XX secolo. Nel 1817 Pierre Joseph Pelletier e Joseph Bienaimé Caventou, due farmacisti francesi, isolarono per la prima volta il chinino; mentre nel 1854 l’esploratore e filologo scozzese Willian Balfour Baikie, durante una spedizione sul fiume Niger, fu il primo ad adoperare il chinino come mezzo di prevenzione contro la malaria anziché come sola cura: prima di quella data moltissimi europei contraevano la malattia in Africa Occidentale perdendo la vita.

Grazie a queste importanti scoperte in ambito medico-scientifico l’impero britannico incominciò a esportare semi e alberi di china dell’America Meridionale per creare delle piantagioni nelle sue colonie asiatiche, prime fra tutte l’India e l’isola di Giava in Indonesia, potendo così abbatterne i costi di importazione.
Il chinino, tuttavia, è caratterizzato da una spiccata amarezza che ne rende difficile l’assunzione, ragione per cui i coloni inglesi iniziarono a miscelarlo con una soluzione a base di acqua effervescente e zucchero, creando, inconsapevolmente, quello che si potrebbe considerare il primo predecessore dell’acqua tonica.

Dal 1831 Schweppes divenne la fornitrice ufficiale di acqua gassata della Corona britannica grazie all’ingegnosa idea che il gioielliere e orologiaio tedesco Johann Jacob Schweppe ebbe nel 1783 di sviluppare a livello industriale il processo di carbonatazione dell’acqua, ovviamente con scopi medici. Quest’acqua, caratterizzata da una spiccata effervescenza, dal 1798, proprio in una campagna pubblicitaria della Schweppes, iniziò a essere chiamata soda water.
La svolta, dal punto di vista commerciale, avvenne però nel 1858 quando Erasmus Bond, proprietario della Pitt & Co., brevettò nel borgo londinese di Islington la prima acqua tonica, classificata, forse per la ridotta quantità di chinino, come digestivo e tonico anziché come rimedio contro gli stati febbrili.

L’acqua tonica non conobbe all’inizio un grande successo, ma divenne popolare soprattutto tra i viaggiatori europei che nelle zone tropicali o subtropicali cercavano una bibita che li potesse rinfrescare. La prima testimonianza del suo utilizzo come componente di un cocktail risale al 1863 quando a Hong Kong era di moda miscelarla con il ginger brandy.
Sebbene i coloni, come abbiamo visto, per mitigare il gusto amaro del chinino lo miscelavano con acqua e zucchero, spesso la soluzione risultava ancora poco appetibile, per cui la allungavano con un bene che sulle navi non mancava mai, l’alcol: poco importava che fosse vino, gin, whisky o liquori locali. Tuttavia, bisogna aspettare il 1868 per sentir parlare per la prima volta di Gin Tonic: quell’anno sulle pagine dell’Oriental Sporting Magazine venne menzionato un cocktail a base di gin e acqua tonica che gli spettatori delle gare ippiche che si tenevano a Lucknow, capitale dello stato indiano dell’Uttar Pradesh, sorseggiavano mentre assistevano alle competizioni.

Al giorno d’oggi l’acqua tonica non può essere adoperata come medicinale per la cura della malaria – bisognerebbe berne molti litri per beneficiare degli effetti del chinino –, ma è una delle bevande essenziali nell’arte della mixology e, ovviamente, indispensabile per il Gin Tonic.

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Grande e piccolo schermo: i cocktail più celebri di film e serie tv

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Con l’avvento del sonoro e la nascita dello star system, grazie anche ai grandi divi hollywoodiani come Rodolfo Valentino e Buster Keaton, il cinema fin dagli anni Venti si è fatto promotore di nuovi stili di vita e tendenze che, soprattutto a partire dagli anni del boom economico, hanno iniziato a essere imitati da un pubblico sempre più attento a quanto appariva sul grande schermo. E con il passare dei decenni anche i telefilm e le serie TV si sono fatte veicoli di nuovi trend, che non riguardano solo la moda, la musica o oggetti rappresentanti uno status symbol specifico, ma anche i gusti in fatto di cibo e cocktail. Numerosi drink, proprio grazie alla cinematografia, hanno conosciuto un successo planetario.

Il più celebre è il Vodka Martini, rigorosamente agitato e non mescolato, ordinato da James Bond, l’elegante agente segreto inglese. James Bond nacque nel 1953 dalla penna di Ian Fleming, anno in cui venne pubblicato Casino Royale, il primo romanzo della fortunata saga. Sul grande schermo, invece, il successo dell’agente 007 risale al 1962, anno in cui Sean Connery prestò per la prima volta il proprio volto al personaggio. Ed è in Agente 007 – Licenza di uccidere che l’agente beve il suo primo Vodka Martini, a base di vodka e vermouth.

La vodka è anche l’ingrediente base del Bloody Mary, cocktail onnipresente ne I Tenenbaum di Wes Anderson. Richie, terzo figlio di un’eccentrica famiglia newyorkese, è solito bere il cocktail speziato al succo di pomodoro per affogare le proprie pene d’amore. O forse per sopprimerle come fece la regina Maria I Tudor, soprannominata Maria la sanguinaria, con i protestanti inglesi, a cui una leggenda attribuisce il nome di questo cocktail.

E il distillato tipico dell’Europa orientale scorreva a fiumi in alcuni celebri telefilm andati in onda tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila. Non si può non citare il Cosmopolitan, il cocktail rosa shocking che Carrie, Samantha, Charlotte e Miranda, le quattro protagoniste di Sex and the City, bevevano nei locali più alla moda di New York mentre attendevano l’arrivo dell’uomo perfetto; o l’Appletini, il drink con il liquore alla mela amato dal dottor J.D., personaggio iconico e narratore della sitcom Scrubs – Medici ai primi ferri ambientata nell’Ospedale Sacro Cuore.

Desperate Housewives è un delle serie TV americane più popolari di sempre che ha contribuito a rendere famoso uno dei cocktail più rinfrescanti ed estivi che ci sia, il Margarita. Susan, Lynette, Bree e Gabrielle sono quattro casalinghe che vivono nel sobborgo di Wisteria Lane, in cui, quotidianamente, si consumano drammi, tradimenti, incidenti domestici e omicidi che scombussolano la vita apparentemente tranquilla del quartiere. Ed ecco che il cocktail a base di tequila, quando le protagoniste devono risolvere una situazione spinosa o riappacificarsi, entra in scena: la ricca Gabrielle ne prepara sempre qualche caraffa da bere in compagnia delle vicine di casa.

Il gin, invece, è lo spirito alla base del Singapore Sling, cocktail di un rosso intenso creato attorno al 1915 dal barista Ngiam Tong Boon del Raffles Hotel di Singapore. Il cocktail, per la cui miscelazione serve circa una decina di ingredienti, è il simbolo di uno dei film più apprezzati dei tardi anni Novanta: Paura e delirio a Las Vegas. In una pellicola allucinogena fatta di continui eccessi, Raoul Duke, interpretato da Johnny Depp, ha un debole per il cocktail ideato nello stato del Sud-est asiatico – oltre che per svariate tipologie di droghe.

Un altro personaggio letterario, poi prestatosi al grande schermo come l’agente 007, è conosciuto per essere un rinomato bevitore e un vero amante di gin: Jay Gatsby. Il personaggio principale de Il grande Gatsby– romanzo del 1925 di Francis Scott Fitzgerald –, che nel 2013 è comparso nuovamente al cinema con il volto di Leonardo DiCaprio, può essere considerato l’icona dei ruggenti anni Venti e il Gin Rickey, il cocktail simbolo di quel decennio, è il drink preferito dall’uomo.

E come non citare, in conclusione, quei telefilm in cui il consumo di alcol e cocktail è uno dei tratti distintivi dei personaggi? E così è impossibile non pensare all’irriverente e sfacciata Karen Walker di Will & Grace con la sua coppa di Martini Dry in mano, o a Cassandra Bowden, L’assistente di volo amante della vodka, o ancora alle protagoniste di Mom, la buffa sitcom incentrata sulla vita di un gruppo di ex alcoliste.

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Non c’è cocktail senza garnish: come rendere impeccabile il proprio drink

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Come per i piatti in cucina, anche nel mondo della mixology i cocktail si bevono innanzitutto con gli occhi. Ogni drink, che sia ordinato al bancone di un bar o preparato a casa per allietare un dopocena con gli amici, deve essere realizzato a regola d’arte, non solo nella tecnica ma anche nella presentazione.
Dimenticate ombrellini di carta, cannucce di plastica e spiedini colmi di frutta che trasformano un cocktail in un mangia e bevi. Le decorazioni, dagli amanti del dizionario anglosassone spesso chiamate garnishes, non solo devono appagare la vista, ma anche essere funzionali in quanto componente irrinunciabile.

IL SOLE DEGLI AGRUMI

Limone, arancia, lime e pompelmo sono tra i frutti più adoperati come garnish ed estremamente versatili. Le bucce degli agrumi, ricche di oli essenziali, possono essere sfregate sul bordo del bicchiere oppure adagiate come topping affinché, attraverso una leggera infusione, possano conferire una nota lievemente acidula al cocktail. Per ricavare le zest è sufficiente adoperare uno zester, l’apposito utensile, un pelapatate o un coltellino, avendo cura di eliminare la parte bianca della buccia, tendenzialmente amara. Gli agrumi possono anche essere essiccati, cosicché gli zuccheri e le sostanze aromatiche in essi contenuti si concentrino. In questo caso basta ricavare delle fette sottili, magari con l’aiuto di una mandolina, disporle su una leccarda e farle disidratare dolcemente in forno per alcune ore a temperatura moderata girandole di tanto in tanto.

I TESORI DEL BOSCO

Piccoli, tondi e ricchi di gusto, i frutti di bosco sono una delle decorazioni più gettonate, complice anche il loro aspetto invitante. More di rovo e di gelso, mirtilli rossi e neri, lamponi, fragoline, ribes e uva spina, la scelta è pressoché infinita, ma per un ottimo cocktail bisogna adoperare quelli freschi, meglio ancora se di stagione. Con il loro sapore dolce e leggermente aspro, i frutti di bosco possono essere utilizzati interi o, come gli agrumi, essiccati. Tuttavia, l’essicazione li rende poco appetibili dal punto di vista estetico; per ovviare a ciò, basta ridurli in polvere. La polvere così ottenuta può essere cosparsa sul cocktail oppure adoperata per decorare il bordo del bicchiere, creando una crosta zuccherina dal colore brillante.

UN ORTAGGIO ASIATICO

Il cetriolo, pianta originare dell’Asia meridionale e orientale, negli ultimi anni è entrato di prepotenza nel mondo della mixology. Un esempio su tutti? Il Moscow Mule e l’ormai eterna diatriba sulla tanto contestata fettina di cetriolo. Fresco e croccante, e talvolta amarognolo, il cetriolo, con il suo sapore delicato, si sposa alla perfezione con cocktail dalla struttura semplice e dal colore neutro, come il Gin Fizz. La buccia deve essere sempre ben lavata – meglio ancora adoperare cetrioli da agricoltura biologica – e non va scartata per mantenere il contrasto di cromie tra il verde scuro della parte esterna e quello chiaro della polpa.

IL FRUTTO PRESIDENZIALE

Nel Martini di Karen Walker, protagonista della sitcom Will & Grace, non mancava mai una grossa oliva verde. E, difatti, le olive sono una delle garnish più adoperate nei cocktail dal gusto secco. Infilata in uno stecchino di legno e immersa nel cocktail, come nel caso del Dirty Martini, l’oliva conferisce uno sapore salino dato per lo più dalla salamoia in cui è conservata; inoltre deve essere succosa e con la polpa soda. A proposito di Dirty Martini: il cocktail è stato ideato dal presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosvelt che l’ha definito dirty, ovvero “sporco”, poiché la salamoia rendeva torbido il contenuto del bicchiere.

UN’AROMATICA MEDITERRANEA

Il rosmarino è una pianta originaria del Mediterraneo, molto usata in cucina per il suo sapore penetrante con sentori che ricordano l’eucalipto e la salvia. I rametti di rosmarino, caratterizzati da foglie simili ad aghi verde scuro, vengono oggigiorno impiegati come garnish per cocktail dal gusto intenso e persistente, soprattutto in abbinamento con il limone. Inoltre, per rendere ancora più accentuata la sua presenza, è possibile realizzare uno sciroppo di zucchero aromatizzato al rosmarino con cui, magari, confezionare un Gimlet da decorare con i delicati fiori lilla della pianta.

SEMPRE RINFRESCANTE

Piperita, artica, glaciale, variegata e cervina. Le varietà di menta sono moltissime e ognuna di esse ha un sapore e un aroma ben definitivo: ce ne sono alcune più fruttate, che ricordano la mela, l’ananas o la banana, altre sono più intese che, ad esempio, rimandano al cioccolato. Regina indiscussa dei cocktail estivi dai sentori rinfrescanti, questa erba aromatica è una delle più adoperate nell’arte della miscelazione, sia come sciroppo sia in foglie. Queste ultime, adagiate in cima al cocktail o immerse al suo interno, devono essere sapientemente dosate per evitare che il sapore erbaceo sia predominante.

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